Hiriketiya > Sinharaja

Se mi fermassi per fotografare ogni cosa che mi piace non farei che cinquanta chilometri al giorno. La moto non aiuta perché la folle non entra nemmeno a pagarla, così la spengo ogni volta che non riesco a fare a meno di fermarmi.

Hiriketiya è stato per lo più un pit stop. Il nuovo ostello non ha proprio l’energia che cerco. Ho fatto un po’ lo scemo con l’ukulele, ma non c’era niente da fare: erano tedeschi. Lascio l’ostello subito dopo colazione, dimentico il casco, ma me ne accorgo soltanto dopo un paio di chilometri. Ok, porcaput, torno indietro, lo indosso e punto ad un baretto hipster per un caffè come si deve.

Incontro un tipo inglese, Ben, che vive in Scozia. Io gli racconto di una tipa di quelle parti con la quale avevo viaggiato per un paio di settimane un paio di anni fa.
«Ero costretto a chiederle di ripetere ogni cosa che diceva. Non capivo niente! Un giorno, all’ennesima volta che glielo chiedevo, lei mi guarda con una faccia tipo “ma che stai a fare con me se non capisci quello che dico?”» Faceto, aggrotto le sopracciglia. «A me invece sembrava perfetto.»
Ben ride, si prende bene e mi snocciola un po’ di storie circa la usa vita in Scozia e i problemi con l’accento.
«…che poi alcune parole sono diverse dall’inglese. Prendi Can, in scozzese can significa know, quindi do you know? diventa do you can?»
Insomma, perdiamo un po’ di tempo insieme.
Anche la cameriera del bar (Niki?) è una tranquillona. È olandese, alta, bionda, statuaria e dagli occhi azzurri. Ha vissuto tre anni ad Ha Noi insegnando inglese.
«…mettevo da parte fino a duemila dollari al mese. Lavoravo tre mesi, poi viaggiavo per altri tre.»
«Com’era vivere ad Ha Noi?»
Lei si punta il viso. «Bionda, alta, occhi azzurri… per loro ero una dea.»
E ride.
C’è anche un’altra persona che mi attira nel bar, una tipina carina (anzi, è proprio bona) con le guance scottate dal sole e gli occhi del colore dell’acqua che di tanto in tanto mi lancia un’occhiata. Forse è il segno divino di trattenermi almeno un altro giorno? No davvero, se non mi metto un po’ di cera nelle orecchie davvero la costa non la lasciò più. Infilo la testa nel laptop, programmo la giornata e lascio che la mia occasione sfumi con lei che lascia il bar.

Mi fermo ad una farmacia per trattare un graffio al piede e pure qui mi dimentico il casco. Passo pure davanti ad un poliziotto e vengo per fortuna ignorato. La cosa divertente è che gli devo passare di nuovo davanti appena mi accorgo della mia smemoratezza e l’omino non mi becca nemmeno alla seconda.

Per un po’ seguo le indicazioni di google maps, poi devio per un percorso più lungo, ma più stimolante. Magari cos’ batto strade meno frequentate da occidentali. Ogni tanto google mi propone di nuovo il percorso più breve e quasi mi fa ridere pensare che per big G il parametro più importante sia la durata del viaggio. Spengo lo smartphone e mi godo la strada.

Dopo un pranzo nella bettola di turno (un euro e mezzo per mangiare curry su una terrazza in riva al fiume) dimentico di nuovo il casco e proseguo fino ad un acquitrino dove uno strano rumore tipo squittio attira la mia attenzione. Alzo la testa e mi accorgo che appesi ai rami non ci sono grossi frutti, ma migliaia di pipistrelli che dormono. Non decine, non centinaia… migliaia. Appesantiscono ogni singolo ramo di quattro alberi giganteschi. Ogni tanto un pipistrello si appollaia insieme agli altri e mi rendo ancora più conto delle dimensioni di questi ratti del cielo: sono grossi come gabbiani. Provo a fotografarli, ma non riesco a trovare il modo di comunicare la portata della cosa. Mi rimetto in moto e parto nell’incredulità più totale.

L’ora e mezza di viaggio prevista da google maps è già diventata qualcosa come tre, quattro ore di viaggio. Salgo più in quota, l’aria si fa più fresca e le strade si stringono fino a circa due metri di larghezza. Ogni tanto, nei posti più improbabili, incrocio un autobus tipo circolare e mi tocca mettermi sul ciglio terroso per lasciarlo passare.

Sono già così abituato a percorsi del genere che quando google mi dice di svoltare verso una salita da trenta gradi fatta di fango e sassi l’imbocco senza pensarci più di tanto. L’unica cosa che mi è passata per la testa è stata “oh, questo sarà divertente…”.
Arrivo quasi in cima al sentiero (perché di questo si tratta) che la moto va in panne, si spegne e cade rovinosamente sul fianco.

Oh, merda.

Sono in cima ad un sentiero fangoso, non ho idea di come scendere e per di più ho appena rotto un tubo dell’acqua messo a terra che sta bagnando il mio zaino con tutta la roba che ho dentro. Oh, dio del crossfit, aiutami a sollevare questa moto e non sciacquerò più via i fondi dei protein shake. Infilo i piedi nel fango e tre tentativi e parecchie bestemmie più tardi la moto è di nuovo in piedi, ma ci metto un quarto d’ora a scendere in retromarcia. Devo andare pianissimo, altrimenti la moto comincerà a scivolare e poi davvero che la distruggo.
Un signore si accorge di me e mi viene ad aiutare, spinge la moto da dietro per evitare che scivoli. Quando sono di nuovo sull’asfalto gli chiedo qual’è allora la strada per Deniyaya. Sempre dritto, mi fa capire lui. Percorro un centinaio di metri e l’indicazione di google di svoltate è sparita. La conta dei danni sono uno specchietto retrovisore in frantumi e la leva della frizione allentata. Tutto sommato poteva andare anche peggio.