Marocco

Mina, la ragazza berbera che ho incontrato all’ostello ad Essaoueira, ha i capelli più folti che abbia mai visto. Se li è lasciati crescere a dismisura e adesso le sovrastano il capo, si riversano come un fiume nero, ruvido e lucente, sul collo e le spalle. Sono così spessi che per acconciarli le basta sistemarli a ciocche. Solo quelle che le pendono dai lobi possono ondeggiare liberamente, il resto è parte di un intreccio a strati. Con una dimestichezza che ha del regale Mina ignora sia il peso che il calore di quella grande massa e mi sorride serena.
Pelle scura, vita stretta ed occhi profondi colmi di gioia e malinconia, nonché di quella rara qualità nella donna di riuscire ad essere complice dell’uomo. È in Marocco da un paio di mesi, una visita per scoprire il Paese che i genitori lasciarono per emigrare in Olanda, lì dove è nata lei.

«Alle donne i tassisti chiedono sempre di sposarle»

«Oh, dev’essere proprio una seccatura per una donna viaggiare da sola»

«Basta stare al gioco! Oh, certo che ti sposo, ma sono esigente! Gli dico che poi per me devono fare questo e poi anche quello… alla fine il tassista dice che non gli conviene più, ridiamo insieme e finisce lì»

Oh, Mina, voglio sposarti anch’io.

Finita la colazione ci diamo appuntamento a Marrakech ed usciamo chi per la spiaggia (lei) chi per un’esplorazione urbana (io).

L’idea di fare lo sporcaccione con Mina è una bella premessa per la mia prossima tappa in Marocco. L’idea mi mette di buon umore, ma dopo un’ora di camminata comincio a sentirmi male. La leggera nausea che avevo da appena sveglio è aumentata così tanto da non poterla più ignorare, anzi… devo accovacciarmi in strada per combattere contro la bassa pressione e riprendere fiato. I miei piani erano pranzare con una grigliata di gamberetti (Essaouira è sull’oceano), ma adesso soltanto l’odore del cibo mi da il voltastomaco.

Torno all’ostello e mi stendo per una mezz’ora sperando che la nausea mi passi. Sono le due del pomeriggio e ho l’autobus tra un’ora.

Quando la sveglia suona, alle due e mezza, scatto in piedi e mi rendo conto di stare peggio di prima. Mina nel frattempo è tornata dalla spiaggia, mi guarda e sorride di nuovo.

«Com’è andata? Hai fatto delle belle foto?»

«Oh sì… cioè, no… oh, credo di stare male…»

La stanza comincia a girarmi vorticosamente attorno, metto una mano davanti alla bocca e corro in bagno a rovesciare il tagini di ieri sera. Ho pure lasciato la porta aperta, così da fuori si sente il rumore di me che vomito come se non ci fosse un domani.

Esco dal bagno e Mina ovviamente è sparita per sempre.

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Raccolgo la mia roba e mi affretto verso l’autobus. Mettersi in viaggio nelle mie condizioni non è proprio una buona idea, ma non voglio restare a Essaouira: qui a parte mangiare e farsi le foto a cavalcioni dei cannoni del forte non c’è molto da fare. Va tutto liscio per gran parte del viaggio, l’autobus fila lungo l’autostrada senza troppi sobbalzi o curve, ma la nausea si fa comunque sentire di nuovo. Cerco di rilassarmi, di tenere lo sguardo sull’orizzonte, l’attenzione sul mio respiro… finendo per addormentarmi. Per la seconda volta vengo svegliato da conati di vomito. Mi giro verso un altro passeggero per chiedergli di farsi dare un sacchetto per me, ma non oso aprire la bocca. Mi alzo e vado a sedermi nella buca a metà del bus, quella con la porta posteriore. Lì comincio a vomitare flotti di liquidi più i residui del tagini che non avevo vomitato al mattino. Il bigliettaio accorre con uno spruzzino ed una busta di plastica. Mi alzo dopo un paio di minuti e lo guardo imbarazzato.

«Je suis désolé»

Torno a sedermi nell’indifferenza generale e dopo una mezz’ora l’autobus finalmente arriva alla Gare de routière, il terminal del bus. Scendo, faccio giusto in tempo a respirare l’aria calda e inquinata di Marrakech che vengo avvicinato dal primo scocciatore.

«Taxi? Tassi?»

«No, merci»

«My friend, hey! ¿espanhol? Where do you go?»

Oh, se solo sapessero il rischio che corrono a farmi salire sui loro taxi. Ignoro il tizio, più un altro paio di dubbi altruisti e m’infilo nel mercato. Quando le bancarelle lasciano lo spazio a portoni e botteghe sono vittima di un nuovo approccio.

«The road is closed!»
(La strada è chiusa!)

Faccio finta di niente e procedo spedito domandandomi se tizio abbia ragione, ma scorgo un paio di macchine venirmi incontro dal fondo e decido che è una balla. Al terzo «the road is closed!», forte degli avvertimenti letti sui blog prima del viaggio, capisco cosa succede: chi lo dice cerca di convincermi a seguirlo per farmi da guida e poi chiedermi un ‘compenso’ per il suo tempo. Google maps non segna nemmeno la metà di quell’intreccio di vicoli e stradine che costituiscono il centro della città, ma quelle che vedo sono sufficienti per potermi orientare fino all’ostello. Fanno quaranta gradi, lo zaino mi fa sudare le ultime gocce d’acqua che ho in corpo, ho fame, sonno e mi girano pure i coglioni.

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Arrivo a destinazione letteralmente allo stremo delle forze. L’omino dell’ostello è simpatico e accogliente, vuole spiegarmi i servizi e bla, ma non riesco a seguirlo, né a stare in piedi.

«possiamo fare questa cosa dopo? Non sto bene»

Lui capisce e mi fa strada in camera. Ringrazio, mi butto nel letto, bevo dell’acqua e cerco di dormire. Dopo una buona mezz’ora passata a contorcermi e maledire il mal di testa un suono improvviso irrompe in camera.

ALLAAAAAAHHHHHH

«ma che c…»

Mi sollevo e realizzo che sono le undici passate. Il rumore è una registrazione dell’Azan, il canto che avverte i fedeli che è arrivato il momento della preghiera.

L’ostello si chiama Hostel Madrassa (ostello scuola coranica) il che suggerisce che l’edificio originale sia stato costruito proprio di fianco ad un minareto, o viceversa. L’architettura è sul modello di una riad, con le stanze che si affacciano tutte su un cortile interno e sono collegate tra di loro da ballatoi con ringhiera.
, una casa tradizionale con un pozzo luce che illumina il cortile interno ed una serie di ballatoi attorno che servono da corridoi. Ogni suono cade dall’alto e risuona dappertutto, diffondendosi nei dormitori. Lo strazio va avanti per almeno un minuto, poi finalmente finisce e prendo sonno. Nella mia ingenuità speravo di dormire fino al mattino, ma già a mezzanotte mi sveglio in preda ad nuovi conati. Il bagno è proprio dietro una delle porte del ballatoio al primo piano. Salto giù dal letto e cammino spedito verso il lavandino quando inspiegabilmente mi ritrovo a terra che mi vomito addosso. Mi sollevo e continuo a vomitare nel lavandino. Ma porc… che sono svenuto? Il dolore al braccio mi suggerisce di sì.

L’omino dell’ostello mi raggiunge sul ballatoio. Non lo vedo, ne sento solo la voce mentre tengo la testa nel lavandino. Lui cerca di rendersi utile, mi chiede come sto. Rigurgito un’ultima volta, mi sciacquo la bocca e il volto con dell’acqua: sono pronto per dormire.

Mi trascino a letto e ci resto fino all’alba, quando il primo Azan del giorno sveglia l’intera clientela, infine sonnecchio fino alle nove. Ormai sono a secco da ventiquattr’ore e ho la lingua come un tizzone ardente, ma col cacchio che ingurgito una qualsiasi cosa. Scendo a parlare con l’omino dell’ostello, Abdul, gli chiedo scusa per il delirio sul pavimento e lui mi mette a mio agio.

«okay, my friend! You good?»

Il Sole ricomincia a scaldare la città. I venti gradi della notte diventeranno quaranta entro le ultime ore del pomeriggio. Ho solo due notti a Marrakech, così decido di affrontare il giorno senza preoccuparmi troppo delle mie condizioni: un passo lento e un paio di limonate ai chioschi della frutta faranno il resto.

I turlupinatori di ieri si sono moltiplicati fino ad occupare ogni angolo del centro. Mi chiedono da dove vengo, se voglio comprare qualcosa e che the road is closed. All’inizio dico di no, no… noooo (porcodio), no… poi per intrattenermi comincio a contare i seccatori come nella barzelletta di Gigi Proietti: invece di dire no al primo gli rispondo «uno!», al secondo «due!» e così via. È una svolta: i turlupinatori contano sulla mia reazione per continuare il loro teatrino, ma non capiscono cosa dico e restano spiazzati. Tra un numero e l’altro visito il palazzo di Bahia, («cinque!») salto il museo dei tappeti che francamente… e raggiungo la Madrassa di San Joseph, («tredici!») dall’altra parte del centro, ma è chiusa per restauro. No vabbè, ma che ho fatto nella mia vita precedente per meritarmi tutto questo? Non solo sono andato in bianco, ma infierire così? Visito un archivio della fotografia («diciotto!») e torno all’ostello.

Non solo lo stomaco si è calmato, ma adesso reclama cibo! Come dirgli di no?

Faccio una doccia e riposo ancora un po’, poi mi affaccio al cornicione del ballatoio in cerca di nuove amicizie. Una ragazza dai capelli rossi e corti, il visino affilato e gli occhi grandi, azzurri e rotondi mi guarda e sorride. Mi sento decisamente meglio.
Scendo a fare quattro chiacchiere e lei non mi stacca gli occhi di dosso. Credo di fare lo stesso anch’io. Alle volte il desiderio è scritto in faccia ed è inutile cercare di nasconderlo.

«Forse ho trovato un posto dove si mangia davvero bene, e per niente turistico! ti va di andarci?»

«Oh, io e la mia amica abbiamo mangiato qualcosa, ma…»

La ragazza dai capelli rossi sta quasi per finire la frase quando la sua amica si avvicina. Questa però si esprime a monosillabe senza guardarmi in faccia ed ha un’espressione assente ed ostile… è la classica guastafeste, la tipa segretamente invidiosa delle grazie della sua compagna di viaggio, perennemente scazzata e fastidiosamente protettiva come solo le ipocrite possono esserlo.

Anche Abdul si avvicina, mi chiede come sto.
«oh, ho una fame da lupi!»
«Non più vomiti?»
Sì, vabbe’… grazie Abdul.
«no, ‘non più vomiti’»
Capelli Rossi guarda l’amica che adesso sembra avere la merda in bocca e risponde:
«Oh, credo che restiamo in ostello»
«Abdul (mortacci tua) e tu che fai? Ci vieni a mangiare un boccone?»
«Sì, sì, dammi un momento»
Ah, canaglia.

Doccia, maglietta con colletto ornato in stile Djellaba (il vestito da uomo marocchino) e turbante. Usciamo dall’ostello e qui Abdul mi insegna una scorciatoia per Jemaa el-Fna, la gigantesca piazza al centro di Marrakech. Chioschi di carne alla griglia, incantatori di serpenti, venditori di cianfrusaglie sbrilluccicose, disegnatrici di Henna, concerti di Gwana, deliri accidentali e baraonde organizzate. Jemaa el-Fna è caotica ed organica come un festival di musica elettronica, ma senza droghe.

La fermata della circolare è proprio davanti il minareto della moschea Koutoubia e qui mi rendo conto che Abdul è nervoso.

«tutto ok?»

«Sì, sì…» L’autobus si ferma ed apre le porte proprio davanti a due poliziotti. «oh, fai finta che parli Arabo» Dice lui fingendo di scherzare.

Le porte si chiudono.

«no, vabbè Abdul, ma che sei clandestino?»

«No, io berbero!»

«Ebbe’? Che ai marocchini i berberi stanno antipatici? (i berberi sono una minoranza etnica)»

«Oh, no… no problema! Uh, siamo arrivati?»

«La prossima»

Scendiamo dal bus e in un paio di isolati siamo già al ristorante. Ci accomodiamo ad un tavolo e Abdul si siede di fianco a me. Lì per lì penso che sia un’abitudine locale, come quella di tenersi per mano tra uomini e lascio fare senza dire niente, poi però noto che gli altri ospiti siedono uno di fronte all’altro. Forse Abdul vuole poter parlare senza essere ascoltato.

Il cameriere ci porta un piatto di lenticchie e del pane, alche io, forte delle storie sui raggiri nei ristoranti (tra condimenti non richiesti pagati a parte e il trucco del doppio menù) gli chiedo se tutto questo è un extra. Il cameriere dice di no, si gira e sbatte i menù su un tavolo vicino in segno di offesa: sono un maleducato: siamo in una zona benestante, lontana dalle truffe del centro.

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La cena è grassa e squisita. Come antipasto ordino un Pastilla (o Bastila), dolce e leggermente salato con una sfoglia croccante e friabile. Una cosa favolosa… in futuro mi basterà nominarla ad un qualsiasi marocchino per stimolare una conversazione sulle prelibatezze locali. Il secondo è uno stufato di carne d’agnello (Tangia) e per Abdul un tagini con prugne, mandorle e miele (Mrouzia) che costa una sciocchezza (nemmeno quattro euro), ma ne vale almeno il doppio.

Abdul vorrebbe mangiare afferrando il cibo con dei pezzi di pane (come si dovrebbe fare con questi piatti), ma davvero non è a suo agio, così prepara il boccone e lo infilza con la forchetta prima di metterselo in bocca.

Quando alla fine il cameriere ci porta il conto, lo tiene in mano senza mostrarmelo ed esclama «Mille dihram!» (Cento euro!) per prendermi un po’ in giro.

Usciamo dal ristorante soddisfatti e qui finalmente Abdul mi spiega il suo nervosismo di prima.

«La polizia qui mi vede con te e pensa, ah, io sono una guida! Mi dice, eh, dove la maglietta? Hai la maglietta da guida?»

«Ma che cavolo dici, siamo amici!»

«Loro dicono no, voi no amici, tu guida! Se esco a prendere i turisti per l’ostello, oh, loro si perdono sempre, e la polizia mi ferma»

Abdul mi racconta una serie di situazioni, sventure e aneddoti… parla per almeno mezz’ora.

«Un Americano…»

«Stati Uniti?»

«Sì… arriva all’ostello con tutti questi ragazzini dietro e loro vogliono i dirham»

«ma chi, the road is closed

«Sì, quelli! E tanti ne sono! L’americano è stupido, mi dice chiudi la porta!»

«E tu?»

«E io no, non chiudo la porta. Poi i ragazzini urlano, battono, svegliano tutti quanti! Allora dico, no, adesso paghi. L’americano è arrabbiato con me, mi dice chiudi, chiudi! Ma io no… tu paghi. Lui da cinquanta dirham ad un ragazzino e gli altri protestano. Io allora dico no, adesso andate via! Chiudo la porta e l’americano è ancora arrabbiato. Dice, il Marocco è uno schifo! Che la gente è brutta! Che fa schifo! Così io gli dico, ah, io non sono marocchino, sono berbero!»

Rido.

«Poverino, non è riuscito nemmeno ad offenderti!»

«Stupido, davvero stupido»

Prendiamo un taxi per tornare in piazza e qui Abdul confabula con l’autista perché lui non ha acceso il tassametro. A sua detta potrebbe anche chiamare la polizia per questo, allora l’autista lo accende, ma in ritardo. Il costo della corsa si riduce a nemmeno un euro, da dividere in due, così l’autista chiede ad Abdul se io sono con lui o da solo (qui i taxi vengono divisi anche tra sconosciuti). Abdul ovviamente gli risponde che siamo insieme e l’autista fa schioccare la lingua in segno di disappunto, perché non può rifarsi con me. Percorriamo l’ultimo chilometro fino all’ostello a piedi, saluto, ringrazio della buona compagnia e mi metto a dormire beatamente.

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Il giorno seguente sfrutto il canto dell’Azan per svegliarmi presto. Voglio visitare il Jardin Majorelle prima che i turisti ne invadano i percorsi. Appena oltre l’ingresso c’è una fontanella con dell’acqua che trabocca in una vasca più grande all’altezza dei piedi. Il giardino è un spettacolo per varietà di piante… Palme, cactus, cespugli e ninfee provenienti dal sud America, dal Giappone. Messico, sud Africa e Cina. Alcuni cactus sono una massa spinosa che si eleva a non più di cinquanta centimetri dal suolo, mentre altri sono cresciuti fino a cinque metri. Alcune palme sono tozze e dal tronco panciuto, altre di stagliano snelle e pacifiche nell’azzurro del cielo.

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Il giardino fu progettato da Jacques Majorelle nella prima metà del novecento, ma fu abbandonato qualche decade più tardi. Quando Yves Saint Laurent lo acquistò negli anni sessanta era ad un passo dalla demolizione. La struttura adesso ospita anche un museo berbero con utensili, costumi e gioielli che vale la pena di vedere. Non è particolarmente grande, ma i soli gioielli meritano di essere ammirati.

Torno in giardino e cammino con calma, ignorando gli altri visitatori che si fanno le selfie o si mettono in posa per Instagram. Alcuni camminano scrivendo su WhatsApp e io mi chiedo che ci sono venuti a fare in questo pezzo di paradiso. Passeggio per un’oretta, poi lascio il giardino a malincuore.

Cammino una decina di minuti e vengo fermato da un signore che parla un po’ di italiano. Mi dice che c’è un mercato nella Medina dove i mercanti si riforniscono della merce che poi vendono in centro. «Vado nella stessa direzione» mi rassicura lui per farmi capire che non vuole denaro. Il trucco è proprio questo: camminiamo insieme e abbasso la guardia, così quando lui incrocia “per caso” un amico, mi dice che mi ci porta lui al mercato. Io lo seguo tranquillo e lui prima mi fa zigzagare nei vicoli, poi mi porta in un negozio di tappeti e borse di pelle: il tempio dell’insistenza.

«e il mercato berbero?» Chiedo io.

«Oh, ici c’est comme au marché!»

Finalmente capisco la situazione è mi rifiuto d’entrare, stringo la mano al signore e gli dico che continuo da solo.

«Le marché Berber!»

Il mercato berbero di tua nonna. Gli do dieci dirham per togliermelo dalle scatole e torno sui miei passi mettendo alla prova il mio orientamento. La macchina fotografica intanto resta a corto di batteria ed non ho altri desideri che mangiare del tagini e tornare all’ostello per ripararmi dal caldo torrido.

Torno al ristorante del giorno prima, quello dove ho mangiato con Abdul e poi finalmente in ostello dove saluto e preparo il mio zaino per partire. Abdul è triste, vorrebbe che mi fermassi un’altra notte. Guardo la ragazza dai capelli rossi che è lì nel cortile.

«anch’io Abdul, anch’io…»

Ci scambiamo i contatti, ci abbracciamo e sono di nuovo in strada. Passo attraverso Souk Semmarine (il bazar appena a nord di piazza Jamee el-Fna) e arrivo alla stazione del bus alle quattro in punto. C’è un autobus fatiscente con su scritto “Agadir”, la mia destinazione, che sembra in procinto di partire. Entro di corsa e mi rivolgo all’autista.

«Agadir, now?»

«Yes now»

Pago, mi siedo e comincio ad aspettare. L’aria condizionata ronza impazzita sopra la mia testa e il corridoio diventa una succursale del bazar. Non esagero… una decina di ambulanti salgono a vendere acqua, altri dieci batterie da viaggio per ricaricare il cellulare, e poi ancora dieci che vendono snack. L’autista spegne l’aria condizionata ed io non ho più alternative che mordere la foglia. Inutile protestare. Quando l’autobus parte assisto ad un litigio tra bigliettai. Non capisco il motivo del disaccordo, ma mi sembra inevitabile date le modalità di vendita dei biglietti: i bigliettai girano per la stazione con i loro bei blocchetti validi per credo ogni autobus. Quando il passeggero sceglie su quale salire paga altri dieci dirham per il posto a sedere. Insomma è una gara per vendere i biglietti.

Ascolto un po’ di musica, leggo un libro (In questa Italia che non capisco, di Mark Twain), ma ad un certo punto l’autobus inchioda i freni e sbanda sul ciglio della strada. Tutti si sporgono a vedere che è successo e vediamo un uomo alto e magro rannicchiato a terra che si copre il volto con le mani. Credo che non abbia visto l’autobus (che ha rischiato di investirlo) e adesso è paralizzato dallo spavento. I bigliettai scendono dall’autobus, raccolgono delle pietre da terra e lo cacciano a sassate ed insulti per averli fatto rischiare un incidente. Roba da pazzi. Tornano sull’autobus a petti gonfi, orgogliosi della loro reazione fascista.

L’autobus riprende la sua marcia. Poco più avanti una pattuglia della polizia sta facendo una contravvenzione ad una vettura. Una donna in lacrime cerca di calmare il marito mentre lui inveisce come una furia contro i poliziotti. Presto la sera cala sul paesaggio secco e montuoso della campagna marocchina e assiepa le emozioni dei passeggeri. Quello affianco a me prova a chiacchierare in francese, che io non conosco se non per poche parole, poi mi mostra un video in inglese di un comico marocchino: il suo modo di essere socievole. Mi faccio un po’ di risate guardandolo e proprio quando sta per finire l’autobus arriva a destinazione.

Agadir è stata la prima tappa del mio piccolo loop nel Marocco. Sono contento di poter tornare al mio ostello a Tamracht (il Lunar Surf House, che consiglio caldamente), anche perché è lì che ho dimenticato le mie flip-flops. Se ne sono andati tutti quelli che conoscevo a parte una ragazza di cui però non ricordo più il nome, ma solo per essere amichevole. Il Marocco sembra attirare un buon tipo di turisti, almeno per quel poco che ho visto. Un paio di resoconti di viaggio alla sera e di saluti al mattino ed ecco che sono di nuovo in strada in direzione dell’aeroporto.

Oh, non voglio partire! Ci sono ancora piatti che non ho assaggiato, persone che non ho conosciuto, ragazze che non ho importunato! Il tempo è tiranno, per non parlare del mio tempismo in quest’ultima settimana di viaggio.

Il tassista che mi riporta in aeroporto parla delle nazionalità europee.

«Italiani sono meglio. Sempre vogliono ridere, scherzare e gentili, buone maniere. Francesi, oh…»

Mette un dito sotto al naso e solleva leggermente la testa. Vuole dire snob.

«Proprio l’altro giorno ho letto che i francesi sono come gli italiani, però noiosi»
Il tassista ride.
«Sì, sì, giusto»
«E i tedeschi?»
«Oh, tedeschi seri, sempre vogliono litigare…»
Fa la faccia dura.

«Dove torni in Italia?»

«Ma quale Italia, vivo in Germania!»

«Ohhh»

«Eh già… ‘ohhh’»

Più cerco di non pensarci, più mi rendo conto che i miei giorni in Cruccolandia devono finire al più presto. Ho bisogno di gente che parla col cuore, magari un po’ confusionaria ma vera, positiva e sorridente. L’autista mi saluta stringendomi la mano e mi invita a tornare in Marocco al più presto.
«Inshallah!» Gli rispondo io per alimentare il suo buonumore. Salgo sull’aereo, decollo e penso a dove andare per le prossime vacanze.

CANZONE DEL GIORNO: Hamid El Kasri – La illaha illa Allah

Agadir

flying landscape morocco countryside try torrida campagna paesaggio marocchino deserto steppa sierra moroccanPer una sorta di scaramanzia tutta mia cerco di far passare quanto più tempo possibile tra il momento l’atterraggio e la prima fregatura, mi piace credere che porti bene.
Fuori dall’aeroporto ci sono i taxi a tariffa fissa che portano ad Agadir per l’equivalente di venti euro, ma l’autobus per Inezgane (un villaggio in periferia) costa solo quaranta centesimi, così passo i cancelli e mi metto ad aspettare sul ciglio della strada. Ci sono più di trenta gradi, secchi e una leggera foschia che smorza l’effetto dei raggi del Sole. Un giovane tassista si avvicina, abbassa il finestrino e cerca di tirarmi su per qualcosa come quindici euro.
«Centocinquanta (dirham)»
«Cento?»
«…cinquanta»
«Naaa, aspetto l’autobus, ne costa solo quattro!»
«Oggi molto caldo, autobus lento, tu aspetta due ore!»
«non ho fretta»
«Centoventi»
«Cento»
«…venti»
«No, ciccio, aspetto il bus»
Tolgo i gomiti dalla portiera e faccio per allontanarmi.
«ok, ok, cento!»
Funziona sempre.

Il tassista si chiama Zaccaria, ha venticinque anni, la bisnonna siciliana ed una figlia che si chiama Lina.
«Nome arabo, significa, uh….»
Zaccaria si guarda intorno e mi indica una palma al centro della rotatoria che stiamo percorrendo. Sbanda ed un’altra macchina suona il clacson.
«ah, guidi come noi italiani, bravo bravo… ok, quindi Lina significa palma?»
«Palma del paradiso, dal Corano! conosci…»
E come no, lo leggo tutte le sere prima di dormire.
Zaccaria adesso mi chiede se sono sposato. Questo è un tema ricorrente coi Marocchini, anzi con gli Arabi dal Marocco all’Egitto. Parliamo ancora un po’ del più e del meno, poi gli chiedo dove mangiare. Lui dice una parola che sembra “McDonald”. Chiedo di nuovo per essere sicuro di aver capito bene.
«McDonald, McDonald!»
«Zaccaria, tu McDonald, io Agadir!»
«non mangia?»
«mangia, sì, ma non McDonald! Un posto di cucina locale»
«conosco!»
«però buono, non mi portare dai tuoi amici»
«porto a ristorante di mio padre»
«seee, Zaccaria… portami ad Agadir.»
Finalmente arriviamo a destinazione: la stazione dei taxi a due chilometri dal centro. Scendo dalla vettura, saluto e continuo a piedi.

Il giorno è luminoso e il vento mi fa camminare con la fronte corrucciata, dandomi così l’espressione burbera di chi non vuole seccature. Sono un po’ prevenuto per via delle fregature di cui ho letto nei vari blog.
Passo davanti ad una bettola con macelleria annessa. I clienti comprano la carne e un tipo l’arrossisce sulla griglia, proprio come fanno d’estate dalle mie parti. Compro una fetta di manzo (un etto a tredici dirham) e quattro costolette di agnello. Pane, insalata di cipolla e pomodori e servizio inclusi, ma gli do un po’ di mancia. La valuta qui è un conveniente uno a dieci, virgola qualcosa, il che semplifica i calcoli.
Mentre mangio parte il canto dell’Azan (il raduno alla preghiera) e sul marciapiede di fianco un gruppetto di venti persone si mette in ginocchio dandomi le spalle. Tra loro c’è un ragazzino di forse sei anni che invece di inginocchiarsi si spaparanza a terra e poi si rialza. Che buffo. Quando il canto finisce sto ancora sgranocchiando l’ultima costoletta.

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Riprendo a camminare, prendo un caffè espresso (buono!) e arrivo al Jardin d’Olhão, uno dei pochi posti che ho segnato da visitare in città. Il giardino è così così, l’unica cosa degna di nota è lo strano muretto al centro, tutto curvo e spigoloso. È stato tirato su cementando insieme tantissime scaglie di pietra. Le colonne dell’ingresso del parco sono state costruite secondo la stessa tecnica, così come alcune parti di una casa di fianco al muretto, che però sembra essere stata abbandonata incompleta.

Agadir non sembra avere molto da offrire al turismo. Ci sono alcuni scorci carini, tipo dei portoni in legno intarsiato con decorazioni islamiche e il porto, il resto è stato ricostruito dopo il terremoto del ’60.

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Quello che mi regala però è l’immagine dei marocchini che passano il pomeriggio al mare. La spiaggia è piena di ombrelloni, quad e tavole da surf. Donne col chador insieme a ragazze in burkini e bikini! Ragazzi in pantaloncini che passeggiano a torso nudo. Persino ad un laico come me tutto questo appare molto più civile che in una qualunque spiaggia europea che si affaccia sul Mediterraneo.

Io ho ancora lo zaino addosso e pure i pantaloni lunghi, perché pensavo che i pantaloncini fossero poco appropriati. Trovo la fermata del bus e cerco di capire come arrivare a Tamracht, la località a venti chilometri da Agadir dove c’è il mio ostello. In strada intanto sfrecciano una quantità di vecchie Mercedes arrugginite che sono pronte per lo sfascio. Una di queste di ferma di fianco a me e l’autista mi chiede dove vado.
«Tamracht!»
«oui, d’accord»
Fa un cenno con la mano e il passeggero seduto sul sedile anteriore apre lo sportello e mi fa posto. Io d’istinto cerco di sistemarmi dietro, ma ci sono già quattro persone strette le une alle altre.
«oh…»
E tutti ridono.
Mi stringo con loro e ripartiamo tra le resistenze della macchina che vibra, ronza e scoppietta nubi nere da buco dell’ozono.

agadir park parco picnic siesta

Dopo qualche minuto di corsa comincio a sventolarmi la mano sul volto. L’autista mi da un colpetto al braccio e mi passa la manovella del finestrino.
«clima» dice lui è tutti ridono di nuovo.
Infilo la manovella nel piccolo perno in metallo che sporge vicino al bracciolo e abbasso il finestrino. Questo risolve il problema della temperatura, ma fa anche entrare il forte odore di pesce che si sprigiona dal porto al di sotto della strada che stiamo percorrendo. Chissà che l’autista non abbia pure delle mollette per il naso.

Dopo venti minuti arriviamo all’ostello e il taxi prosegue la sua corsa verso Tagazout. Qui incontro gente di tutti i tipi, ognuna con la propria storia da raccontare.

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Una ragazza dell’Arizona disegna buffi personaggi in acquerello per illustrare racconti per bambini. Fa tutto con così tanta calma e meticolosità da sembrare in tutto e per tutto come una meditazione, o la pratica del mandala.
«ero in questo ostello in Indonesia che stavo disegnando per i fatti miei…» Mi spiega. «quando una signora si avvicina, vede quello che faccio e mi chiede se voglio illustrare le sue storie… questo sarà il terzo libro che faccio con lei»
Mi mostra le bozze e le tavole che ha già preparato, buffe e colorate. Disegna i vari personaggi e gli oggetti separatamente, poi li ritaglia, lì fotografa e li compone al computer.

Sarebbero tante le persone da raccontare ancora, ma anche noioso cercare di farlo. Mi limito a questa. Domani mattina ho yoga e la lezione di surf. Che la vacanza abbia inizio!

P.S. Ho dimenticato il cavetto del cellulare a Berlino, è il mio subconscio che cerca di comunicare.

PAROLA DEL GIORNO: Jazakum Allahu Khairan (May Allah reward you)