Contrattempi e contratture

It’s all fun and games until someone loses an eye.

– Mom

Nei paesi in via di sviluppo il codice della strada rappresenta solo metà delle regole, l’altra metà è una serie di norme non scritte, nonché piene di eccezioni, alla quale bisogna adattarsi alla svelta. Ci sono regole da seguire con la testa e altre da seguire con la pancia.

In aggiunta al traffico, anche la condizione delle strade e dei mezzi che circolano deve essere presa in considerazione. Gli autobus, i camion, ma anche i mini-van esalano certe scure meccaniche che ogni volta che ne respiro una mi sembra di aver appena perso un anno di vita. Sorpassare i mezzi pesanti è pericoloso, ma guidarci dietro è tossico. Tanto vale godersi l’ebbrezza del rischio.

Oggi ho scoperto che i mezzi con cattiva manutenzione perdono olio, parecchio olio. La traiettoria di mille macchine e furgoni è una striscia nera sull’asfalto. La striscia indica la traiettoria migliore (comincia nel punto in cui danno gas) ma è anche bene starci alla larga.

Stò proprio scendendo i tornanti di Nuwara Eliya, verso Nanu Oya, una bella strada asfaltata, larga e non troppo in pendenza, quando a metà dell’ennesima svolta, quando sono già inclinato, mi trovo davanti una grossa chiazza di olio nero e viscido. Non sono nelle condizioni di fare nulla se non passarci sopra e scivolare rovinosamente a terra. Non stavo andando troppo veloce, ma anche solo a trenta all’ora un ginocchio a terra è un dolore che non ti dico. Una dozzina di passanti vengono ad aiutarmi. Sollevano la moto (liberandomi il piede) e mi aiutano a metterla sul ciglio della strada.
Un guidatore di Tuk-Tuk comincia a ripetere la parola ospedale ed è chiaro che mi ci porta lui. Piego la gamba e mi sembra che, escoriazioni a parte, non mi sia fatto niente di serio.
«Non credo di averne bisogno.»
Il guidatore, appurato che non prenderò il suo tuk-tuk, smette di preoccuparsi della mia salute e se ne va.
Un secondo cingalese mi chiede da dove vengo (ovviamente), poi mi dice:
«Ho guidato in Italia, in Francia… ma in Sri Lanka non guido!»
Ho fatto un po’ di danni alla moto: La leva del cambio è completamente storta ed è difficile cambiare marcia. Il paraurti del motore è visibilmente storto, così come quello a sinistra del manubrio.
Dopo qualche tentativo, il motore si accende e scendo fino al paese più vicino per disinfettarmi. Con me ho solo dell’alcool da farmacia che brucia da morire. Attorno a me si è già formato un nuovo gruppo di Cingalesi che ridono ogni volta che mi stropiccia la faccia in una smorfia di dolore. Fumo una sigaretta per calmare i nervi, poi scendo di altri venti chilometri per comprare tintura di iodo, garza e cerotti. Vorrei dell’antisettico in spray, ma è già da una settimana che lo cerco e ancora non lo trovo.

Ci sono due tipi di centauri, quelli che sono caduti e quelli che non sono caduti ancora.

– Detto popolare

Da Nanu Oya in poi, la strada è decisamente più trafficata delle altre e mi rendo conto che guido su una macchia d’olio lunga chilometri e chilometri. Ce n’è praticamente una ad ogni svolta. Procedo piano e di malumore… non tanto per essere caduto, ma perché adesso ho paura di cadere di nuovo e guido come un imbranato. I motorini mi suonano perché non sorpasso.

Ad ogni modo, le disavventure non sono di certo terminate. Batto il piede sul piccolo gradino della porta del bagno dell’ostello e l’alluce diventa blu nel punto più assurdo. Se prima era zoppo, adesso sono super zoppo.

Sulla strada per Polonnaruwa un insetto mi si schianta sulla faccia mentre sto andando a ottanta all’ora. Il vento lo tiene premuto nella piccola conca sotto all’occhio e devo usare la mano per liberarmene. L’insetto intanto mi infila il pungiglione proprio sotto la palpebra. Guido con un occhio strizzato per dieci chilometri, bestemmiando tutti i santi che conosco. É solo quando mi fermo che mi rendo conto di avere ancora il pungiglione nella carne.

Adesso che sono di nuovo in pianura la segnaletica si arricchisce di nuovi segnali. Sono tutti dei rombi gialli con una cornice nera, ma all’interno ci trovo la sagoma di un elefante, quella di un iguana… Dopo nemmeno un’ora ne vedo uno attraversare la trada. È lungo un metro e mezzo ed ha dei cerchi colorati sul dorso. Mi fermo per fargli una foto, ma lui si va a riparare in un campo di riso sgusciando via oltre il ciglio della strada.

La strada appartiene a qualunque cosa di muova. Mezzi, passanti, biciclette, ma anche e soprattutto cani. Dormono nel bel mezzo della corsia (perché l’asfalto è caldo) e sono così stupidamente tranquilli che alzano la testa solo se sentono che qualcuno gli sta passando troppo vicino. I cani che però mi fanno paura sono quelli che camminano proprio nel mezzo, perché sono imprevedibili. Rischio di metterne sotto almeno un paio; francamente ho più paura di cadere dalla moto che di ucciderli.

Il giorno dopo (“dopo” nel senso di dopo la fregatura di Polonnaruwa, un sito archeologico da venticinque dollari a ingresso) mi rendo conto che per cambiare le marce devo sollevare la gamba. All’inizio penso che si è allentata la leva del cambio, ma all’ennesima marcia devo sollevare la gamba di quasi dieci centimetri e la marcia ancora non entra! Guardo in basso e la leva è tutta penzoloni sotto al mio piede.
Merda: si è spezzato il supporto in pressofuso del cambio!
Resto bloccato in seconda, ma trovo un meccanico a pochi chilometri che mi salva la vita improvvisando un nuovo pezzo.
Mentre sono lì ad aspettare, chiacchiero con un Cingalese dall’inglese sciolto. Mi dice che siamo nel bel mezzo della riserva di Minneriya ed è pieno di elefanti selvatici.
«C’è una scorciatoia per Sigiriya…» Continua lui. «ma a quest’ora è pericoloso… gli elefanti si postano al tramonto e se sei troppo vicino fanno la carica.»
«Che faccio se me ne trovo uno davanti?»
Lui ride e fa il gesto di dare gas con il polso. «Però la strada è stretta, non puoi fare manovra.»
Insomma, se l’elefante mi trova sono fottuto.
«La strada normale andrà benissimo.» Concludo io. Spengo la sigaretta a terra e finalmente la moto è pronta. Il meccanico, a gesti, mi dice che devo cambiare il pezzo, che così non va bene. Lo ringrazio (ma gli darei un bacio in bocca) e riprendo la strada.
Google non sa niente degli elefanti selvatici, perché dopo nemmeno dieci minuti mi trovo in una strada stretta che attraversa la foresta: esattamente la strada che mi ha descritto il tipo di prima. Me ne accorgo troppo tardi e ormai ci sono dentro. Giuro, non ho mai guidato in un silenzio più religioso. Resto col fiato sospeso per venti minuti e ad ogni svolta ho l’impressione di vedere la sagoma di un elefante. Ho anche paura di sopravvivere e vederlo calpestare la motocicletta. Comunque… sono quasi arrivato a Sigiriya che vedo un ingorgo davanti a me. Tuk-tuk, scooter ed un paio di Jeep per il safari.
«Che succede?» Chiedo io.
«Elephants, Sir»
La gente paga un sacco di soldi per il safari. A me basta guidare al tramonto per vederli gratis, ma anche no, grazie. L’ingorgo si scioglie e finalmente arrivo all’ostello. Dormo in tenda, circondato dai mille rumori della foresta attorno a me. Sono super zoppo, ho un occhio gonfio e guido una moto che sta insieme con lo sputo, ma mi basta stendermi a letto, immerso in questi suoni, per ritrovare la pace.
Durante la notte, sento alcuni scrosci di pioggia, richiami misteriosi ed il ringhio del cane dell’ostello che tiene lontano chissà quali animali esotici.