L’omino in divisa all’accesso della banchina del treno mi domanda:
– Qual’è il motivo del suo viaggio?
È pazzesco come domande cretine come questa sembrino avere un senso per certa gente.
– Turismo – rispondo (non mi metto a fare il filosofo con uno sceriffo boliviano).

Il viaggio in treno sembra interessante. Bei paesaggi. Passiamo un ponte, bello, che sovrasta una distesa di dune di sabbia (strano) e pozze d’acqua, però cala subito il buio e lo spettacolo finisce lì. Peccato.

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La mattina dopo il paesaggio sembra più africano che sud americano, comunque diversissimo dai polverosi altipiani boliviani. Ci sono alberi secchi, palme sparse un po’ in giro, terra e polvere che traccia i raggi del sole. Rimango a guardare dal finestrino per un po’, ma è un po’ monotono.. deve pensarla così anche la bambina al sedile davanti al mio: mentre mi apro un libro si gira e con la testa appoggiata sulle braccia comincia a fissarmi. È una trappola, mi sta provocando e se le do attenzione sarà la fine, si sentirà autorizzata a rompere le scatole fino all’arrivo del treno, che peraltro non so quando sarà (il treno è in ritardo, 4 ore ..dicono).

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Il treno fa una sosta nel mezzo di un villaggio di catapecchie di legno, e una folla di bambini in cerca di spiccioli e venditori ambulanti di limonate, spiedini e patate arrosto accerchia il treno. Dentro la ressa.. abbassano i finestrini per comprare quel che c’è e una folata di aria rovente mi fa ringraziare Dio di aver preso posto nel vagone con l’aria condizionata. Chissà negli altri vagoni che caldo, nemmeno voglio pensarci!

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A Quijarro (arrivo del treno) ci sono almeno 30 gradi e io c’ho ancora su gli scarponi pesanti da trekking (una bomba che esploderà presto in ostello!).

La frontiera è ancora chiusa, ci sono solo una dozzina di turisti australiani che si stanno lasciando convincere da un tipo che gli sta dicendo che il cambio buono glielo fa lui. Io ho solo 170 bolivianos, che in Brasile mi saranno appena sufficienti per 2 notti di albergo, quindi non mi faccio impressionare più di tanto, peraltro con gli scarponi, maglietta e pantalone nero e occhiali scuri devo avere un aspetto inquietante e non mi si avvicina nessuno. Meglio così.

Vado al “Ristorante” (che qui solitamente significa un tendone, sedie e tavoli di plastica forniti dalla compagnia della birra e una cucina malmessa e mal nascosta. Mosche dappertutto), provo una bibita locale, chola de mani, dal sapore disgustoso (chola in dialetto termolese, mi sembra, significhi minchia.. minchia di mani, me lo dovevo aspettare!).
Mentre mi guardo attorno noto che le cholas (le donne negli abiti tipici: 10 strati di scialle, trecce e bombetta stile Aglio & Olio sulla testa) sono sparite, già a Santa Cruz erano ben poche, per lasciare il posto a donne più scure, con i pantaloncini jeans aderenti e il tipico “panettone” brasiliano.

Apre la frontiera e dentro vedo che la polizia ha deciso di rompere le scatole ad un ragazzo, probabilmente per il fatto che il tipo è cinese, il tutto perché non ha il certificato di vaccinazione contro la febbre gialla (è obbligatorio quando passi il confine qui, ma QUI non gliene frega niente a nessuno delle regole, quindi non conta). Io il mio ce l’ho nello zaino ma a me nemmeno lo chiedono (immagino che per il momento gli bastino i soldi che costringeranno a farsi dare dal cinese per fargli passare la frontiera).

Faccio 20 passi e finalmente sono tornato in Brasile!

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PAROLA DEL GIORNO: v voltar (tornare)

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