Unawatuna

Sono ancora così abituato alla mia ultima moto (quella che si rompeva ogni secondo giorno) che non riesco a fidarmi di questa. Ogni volta che sento puzza di plastica penso subito che stia partendo qualcosa, ma mi rassicuro quando realizzo che è solo la spazzatura che viene bruciata sul ciglio della strada.

Ho passato un’intera settimana in Unawatuna e avrei potuto spenderne tranquillamente un’altra ancora, ma ho mete ambiziose (e lontane) prima di chiudere il mio cerchio a Negombo.

La spiaggia di Unawatuna è ampia, sabbiosa, piena di bar e ristoranti. E l’ideale per famiglie e bambini, ma anche piuttosto monotona. Ci passo un paio di giorni perché è vicina alla guesthouse, ma soprattutto alla mia bettola di Roti preferita. Quakche metro più avanti c’è un bar piuttosto hipster, ma ancora accessibile, dove posso buttarmi sui cuscini e ingollare succo di papaia e ananas come se fossi sdraiato a letto. I classici di Bob Marley sono la colonna sonora del locale.

Stanco di oziare, salto in moto e raggiungo Jungle Beach, un paio di calette a ridosso di colline fitte di vegetazione. Anche qui il corallo è quasi inesistente, ma in compenso ci sono un sacco di granchi colorati, pesci Picasso, pesci angelo, pesci unicorno e pesci chirurgo in pigiama.

Durante la settimana la spiaggia appartiene ai turisti, ma il weekend è popolata dai cingalesi. Diventa davvero affollata e l’atmosfera è più festosa. Adulti e bambini si divertono un mondo: si rincorrono, si lanciano la sabbia, si trascinano in acqua per le gambe, fanno la lotta.

Ogni tanto, qualche scimmia scende dagli alberi vicino al ristorante e i cani della spiaggia gli fanno la posta da sotto. Le scimmie scattano all’indietro, ma poi si fanno coraggiose e afferrano i biscotti dalle mani dei turisti che glieli offrono.

«Oddio, quante scimmie, vieni!» Grido ad un’altra backpacker che ho conosciuto da un paio di giorni.
«Come sei tenero…» Replica lei. «Tra un paio di settimane non ne potrai più delle scimmie!»
Sarà, adesso però gli scatto decine di fotografie.

Lascio Unawatuna un paio di notti dopo, diretto ad Ahangama. La tipa mi ha suggerito un posto molto carino dove però non resisto che una notte. Il dormitorio costa sedici dollari, una cifra indecente. I prezzi del cibo e delle bevande sono così alti che non riesco a non sentirmi sfruttato. L’unica cosa positiva è scoprire, tramite il proprietario del posto, che domani sera ci sarà una parata, a Pilana, per celebrare la Luna piena. A quanto pare, questa festa (chiamata Prahara) è la più importante di tutto l’anno.

Il mattino successivo rimetto tutto nello zaino e torno a Unawatuna. Trovo un ostello a ridosso di una collina, nascosto nella vegetazione e a venti minuti a piedi dal mare. Qui non c’è l’aria condizionata e le camere sono piuttosto spartane, ma mi bastano dieci minuti per sentirmi a casa.
Il proprietario, Cartoon, è un tranquillone. Lui e il suo amico Wastu, gestiscono l’ostello da circa tre anni e l’hanno sistemato insieme a degli ospiti con murales e decorazioni di tutti i tipi.
Due cani di piccola-media taglia, Coco e Lio, mi accolgono leccandomi le braccia. Coco si sdraia pancia all’aria e mugola che lo coccoli. Cagna.

Insieme ad un’altra ospite dell’ostello, visito il tempio di Yatagala Raja Maha Viharaya. Le celebrazioni della Luna piena coinvolgono tutta la comunità, che prega, accende candele ed omaggia i propri idoli con fiori e canti. Il tempio è ricavato da una nicchia sotto un’enorme roccia. Le luci al neon illuminano le statue in stucco con la loro luce fredda, ma non incidono sull’atmosfera. Mi piacerebbe fotografare tutto questo, ma non mi va di puntare l’obiettivo in faccia a questa gente. Scatto un paio di fotografie in sordina, torniamo alla moto e puntiamo verso Pilana.

Bancarelle di cibo, dolciumi e vestiti sono circondati da una folla schiacciata dal traffico. Il villaggio è sviluppato attorno ad un’unica strada. In lontananza vedo una specie di parco giorno illuminato a giorno da LED multicolori e la mia amica mi dice che quella è in realtà la pagoda!
Stanchi della folla, cominciamo a domandare in giro circa la parata vera e propria. Un tizio ci dice di proseguire per un chilometro.
«Prendiamo la moto?» Chiede la tipa.
«Un chilometro sono dieci minuti a piedi, andiamo…»
Dopo venti minuti chiediamo di nuovo e otteniamo la stessa informazione.
«Un chilometro.»
«Si ma quanto ci vuole a piedi?!»
«Mezz’ora»
Mi volto verso la tipa. «Saranno almeno cinque chilometri, torniamo indietro.»
Ci immergiamo di nuovo nella folla, recupero la moto e rifacciamo tutta la strada in sella. Quando la polizia ci intima di fermarci capiamo di essere arrivati.

La parata è composta da gruppi di acrobati, maschere, ballerini e giocolieri. Alcuni ragazzini fanno salti mortali e atterrano a piedi nudi sull’asfalto. Il pezzo sono gli elefanti colorati a LED. Queste povere bestie sono costrette a sfilare appesantite da file di catene al collo e catenacci ai piedi. Gli elefanti ondeggiano a destra e sinistra appena dietro a di percussionisti e sembra proprio che danzino.
«Si muovono così quando sono confusi.» Mi spiega la tipa.
In effetti non sembrano passarsela troppo bene, mi fanno davvero pena. Ad ogni modo, la parata si esaurisce e prosegue verso il centro; noi ne approfittiamo per tornare all’ostello.

Il sabato mattina Cartoon ci propone riso con curry ed una festa sulla spiaggia. Compriamo da bere ed in serata siamo tutti attorno al tavolo in giardino a brindare, ascoltare musica e giocare a carte. Una ragazza entra nell’ostello per usare il bagno. Quando torna, indica l’ostello col pollice e dice, con grande tranquillità, che c’è un incendio. Ci voltiamo tutti quanti a guardare ed una nuvola di fumo nero avvolge il salone. Saltiamo dalle panche e riempiano ogni contenitore possibile di acqua. In una stanzetta, le gabbie dei cani, in plastica, bruciano esalando diossina e le pareti sono già nere di pece. Spegniamo l’incendio in poco tempo e trasciniamo la roba rimasta più o meno integra in giardino. Dopo un’oretta, come se nulla fosse accaduto, andiamo alla festa in spiaggia. Stasera è il compleanno di Wastu e lui vuole assolutamente festeggiare. Non parla bene inglese, ma in compenso regala sorrisi a tutti quanti.
Torniamo alle cinque del mattino completamente sbronzi e assonnati. L’ostello resta in silenzio fino all’ora di punta, quando la calura ci costringe ad uscire dalle stanze.

Passa un altro giorno. Stavolta vado alla spiaggia di Dalawella, una specie di piscina naturale protetta da degli scogli affioranti. Un cartello vieta di toccare le tartarughe marine, al che guardo verso il mare e vedo un buon numero di persone con le maschere da snorkeling concentrate in un paio di punti. Ne noleggio una anch’io (per trecento rupie) e mi immergo per controllare. Ci sono due tartarughe enormi, una forse un metro e mezzo, che nuotano tranquille alla ricerca di alghe.

Tutte queste cose che scrivo sono solo un decimo di quello che ho fatto a Unawatuna, ma ero troppo impegnato a godermela per fermarmi a scrivere. Ad ogni modo, è arrivato il momento di caricare lo zaino sulla moto. A malincuore, saluto la piccola famiglia dell’ostello (incluso il gruppetto che sta ritinteggiando la stanza che ha preso fuoco) e punto verso Hiriketiya.

Sono già piuttosto in ritardo. Dovevo partire entro le quattro per arrivare a destinazione prima di sera, ma l’odore di gamberetti grigliati che proviene da un ristorante sula spiaggia è troppo invitante e DEVO fermarmi. Sono in ritardo comunque. Il sole lascia la scena alle luci artificiali e realizzo di avere una guida piuttosto rischiosa davanti a me. Quando anche il cameriere cingalese si premura di dirmi di andare piano capisco di essere piuttosto nella m.

Pedoni e biciclette sono sagome nere stagliate contro i fanali di mezzi in transito. Attraversano la trada furtive, a volte dubbiose, altre troppo sicure di sé. Otre a loro, a tenermi vigile ci pensano i tuk-tuk che si immettono in corsia senza aspettare di avere la strada sgombra o, peggio, che fanno inversione i marcia all’improvviso. A metà percorso, mi fermo vicino ad una coppia di turisti sulla sessantina, inglesi, dove posso trovare uno sportello del bancomat. Loro mi chiedono dove sto andando e io non riesco a ricorda il nome della mia destinazione.
«mhh, ancora un’ora di strada.»
«oh, bloody hell!» replicano loro all’unisono nell’espressione più inglese di tutte.

Hikkaduwa > Unawatuna

Sulle strade dello Sri Lanka le dimensioni contano: se sei in motocicletta è meglio che tu la sappia anche usare. La linea che separa le due carreggiate è un vuoto burocratico occupato. È la specie di “terza” corsia dal senso di marcia fluttuante. Può essere occupata da due autobus che si sorpassano a vicenda (mentre entrambi sorpassano un tuk-tuk) o diventare la corsia preferenziale dei motorini nelle ore di congestione più totale.

Gli autobus sono i peggiori figli di puttana di tutto lo zoo. Sorpassano nei posti meno opportuni, se qualcuno sul ciglio della strada gli fa un cenno frenano all’improvviso e poi ripartono sollevando dei nuvoloni di fumo nero. Ho imparato a stargli ad almeno dieci metri di distanza e a sorpassarli appena ne ho la possibilità.

Ogni veicolo ha una delle frecce di svolta costantemente accesa: sui mezzi cingalesi la leva non scatta dopo aver svoltato, allora è preferibile ignorarla. Io ogni tanto segnalo la mia svolta, ma è più per abitudine che per altro. La cosa davvero importante però è segnalare la mia presenza a chi mi sta davanti suonando il clacson. I guidatori sono troppo concentrati su quello che hanno davanti (sempre che di concentrazione si tratti) per preoccuparsi di quello che accade alle loro spalle.

Segui il tuo istinto.

Hikkaduwa

Il mattino a Hikkaduwa è annunciato dal treno che scorre alle spalle dell’ostello. La ferrovia è a cinque metri dal mio letto… facciamo sei. Come i tuk tuk, automobili e motorini, la locomotiva annuncia il suo passaggio, ma con la sua tromba da stadio. Vibra la branda, vibra il muro, mi sveglio di soprassalto domandandomi cosa cacchio stia succedendo. Il treno è passato qualcosa come cinque volte nel corso della notte, ma le ore piccole non hanno indotto il macchinista ad andarci piano con la tromba. Il convoglio delle sette e cinquantatré è il canto del gallo. Mi alzo (stranamente riposato) ed esco dal dormitorio circondato dal richiamo di uccelli, roditori e chissà quali altre bestie che non ho mai visto prima d’ora.
Nel giardino saltella una ragazzino turbolento. Si muove agitato e sospettoso, ma è alimentato da abbastanza curiosità da avvicinarsi a me.
«Ciao piccoletto, e tu come ti chiami?» Provo a dirgli in inglese semplice. «Io…» Dico indicandomi il petto. «Davide» Punto l’indice verso di lui. «E tu?»
Il bambino dice qualcosa di incomprensibile, poi alza il braccio e mi butta una mano tra le gambe.
«OH!» Reagisco io scattando all’indietro. «Questo non si fa!»
Il bambino farfuglia ancora qualcosa e se ne va.

Hikkaduwa è un grosso villaggio turistico sviluppato lungo la strada che corre parallela alla costa. Alcune strade portano verso l’interno, ma il villaggio è decisamente sviluppato sul lungomare. Bar Hipster, tavole da surf a noleggio, piccoli locali di Roti ed una quantità impressionante di russi. È facile individuarli, sono i ciccioni che passeggiano con le biondine sottili.

Ieri notte, tra un treno e l’altro, ho letto della barriera corallina di Hikkaduwa e di come, nel corso degli anni, sia andata progressivamente sparendo. Restano da vedere le tartarughe marine (all’omonima Turtle Beach) ed i pesci tropicali. Mi basta nuotare fino a trenta metri dalla costa per vedere piccoli banchi di pesci coloratissimi che rovistano il fondale alla ricerca di cibo. Ci sono dei pesci pappagallo più lunghi del mio braccio e dei pesci farfalla color argento con la coda nera di pece e giallo fosforescente.

La linea di alberghi e Guesthouse che si affaccia sulla spiaggia è riservata ai clienti più facoltosi. Fatta eccezione del Bandula, i turisti più budget come me dormono dall’altra parte del lungomare. È facile spendere un paio di giorni qui, tra spiaggia e lallero, ma ho il sesto senso che ci siano decisamente posti migliori di questo. Insomma, è arrivata l’ora di fare di nuovo i bagagli.

PAROLA DEL GIORNO [cingalese]: Ammé (mamma)

Negombo > Hikkaduwa

Ieri sera, tornando all’ostello coi cinesi (e fiaccato dalla mancanza di ogni avventura di sorta) ho mandato un messaggio al tipo dell’agenzia e gli ho confermato il noleggio della moto.

01/05/20 alle 22:19:03 Davide scrive: allright, let's do it

Questo è bastato a farmi dormire tranquillo.

Il mattino dopo cerco un po’ di informazioni sulla patente internazionale. Anche se la mia patente è valida per le moto, senza l’IDL potrei avere problemi se mi fermano in strada.
«Fate le IDL in agenzia?» Chiedo al tipo via whatsapp.
«Certo!» Conferma lui. «Vieni in agenzia che ne parliamo.»

Una volta contrattato il prezzo della moto (undici dollari al giorno per una Yamaha FZ da 200cc) chiedo ancora per l’IDL.
«Sì…» Dice ancora lui. «costa trenta dollari, però…»
«…è sabato.» Completo la frase io.
«Esatto…» Il tipo sembra sollevato «dovresti aspettare lunedì, però… non ti serve mica, eh»
«Ah no?»
«Se ti fermano gli fai vedere la tua…» Mi mostra la sua patente. «È come la nostra, guarda…»
In effetti un po’ si somigliano, ma il punto è un altro: il tipo non è interessato a farmi risparmiare i trenta dollari dell’IDL, vuole solo convincermi che non è un problema non averla, altrimenti potrei decidere di non noleggiare più la moto e addio affare.
«Tu vai piano. Se ti fermano, gli fai vedere la tua. Parla inglese. Se non sanno l’inglese ti lasciano andare. Oppure mi chiami e ci parlo io.»
«Altrimenti pago la… multa, vero?» Chiedo io strizzano un occhio. «A quanto sta la multa, mille rupie?»
«Ohhh, vanno bene anche cinquecento.»

Finito il teatrino testo la moto sulla Lewis Pl, la strada dove si affaccia l’agenzia. Tra i rumori del motore si nasconde un ronzio, tipo viti allentate che vibrano, tipico delle moto che stanno messe male. Il cambio fatica ad ingranare la prima, anzi non l’ingrana proprio. Il tipo mi dice qualche cosa tipo che la moto è fatta così, che no problem eccetera eccetera. Io lo lascio parlare, perché sì, puoi dirmi quello che vuoi, ma se la moto è un pacco ci sta poco da girarci intorno. Dovrei cercarne un’altra, ma non ho sbatti per passare in altre agenzie ed iniziare la contrattazione daccapo. Pago i 220$ per le tre settimane di noleggio, lego lo zaino al portapacchi e sono finalmente in strada.

Faccio una sosta al benzinaio prima di lasciare Negombo. L’omino della pompa della benzina, come il venditore di Rotti, serve i cingalesi che sono arrivati dopo di me fino a quando non mi impongo. Mi riempie il serbatoio fino all’orlo. Capisco che l’omino vuole vendermene il più possibile, ma la benzina sta quasi per uscire dal bocchettone è mi tocca gridargli di fermarsi.
«Ok, chiudi, chiudi» Mi fa segno lui con la mano, ma se chiudo, una parte della benzina resterà dall’altra parte della guarnizione: così rischio che poi mi schizza giù fino al motore rovente… insomma, che prende fuoco la moto con me sopra. Gli chiedo un pezza, ma lui, invece di asciugare la benzina di troppo, la intinge dentro il serbatoio. Il vecchio deve aver respirato troppi fumi di gasolio.
Una volta risolto il problema, punto verso l’istmo che separa la laguna di Negombo dall’oceano, venti minuti di pace prima di immergermi nel traffico di Colombo.

Dr Danister De Silva Mawatha, la spina dorsale della capitale, è il delirio. Ho scelto la strada peggiore di tutto lo Sri Lanka per la mia prima esperienza di guida. Macchine e Tuk Tuk entrano in carreggiata senza aspettare di avere la strada sgombra. Semplicemente infilano il muso in mezzo al traffico e procedono a rilento, fino a quando il flusso ne resta strozzato. All’inizio non capivo perché i mezzi si tenessero all’esterno della carreggiata, adesso capisco che è proprio per evitare quelli che cercano di entrarci. A rendere le cose più interessanti, si guida sul lato sinistro, come in Inghilterra, il che mi fa dubitare di essere sul lato sbagliato ad ogni svolta. Le rotonde sono il mio nuovo incubo.
Dopo un’ora di strada ho disintegrato la gigomma che avevo in bocca e le ginocchia adesso sono ustionate dal Sole. Ho dimenticato di spalmarci sopra la crema solare. Mi fermo ad un chiosco della frutta, mi lavo la faccia per pulirla dalla polvere e mangio un boccone.

Per chi non mi conosce, questa sembra la descrizione di una giornata di merda: sono super eccitato. A parte essere con buona probabilità il peggior individuo sulla strada, chiacchiero chiunque si fermi di fianco a me ad ogni semaforo.

Un ragazzo mi avverte che la cintura del mio zaino pende pericolosamente vicino la ruota posteriore (il che mi sembra una premura incredibile considerando il delirio attorno a noi). Un altro ragazzo mi consiglia di comprare degli occhiali da Sole ed una mascherina per evitare la polvere grigia della strada.

Dopo un’altra mezz’ora, svolto in un vicolo e dopo un altro paio di traverse (inclusa una dove stavo per finire dentro un canale della fogna a cielo aperto) mi immetto in una strada più tranquilla. Appena la periferia di Colombo è alle mie spalle, la strada si riempie di palme e posso accelerare un po’. Da un lato ho l’oceano, dall’altro la ferrovia. Ogni tanto il paesaggio si apre su una spiaggia o un treno sgangherato mi scorre di lato. Sono tutti così lenti che mi basta accelerare fino a settanta chilometri all’ora per tenergli testa.

Svolto dalla parte sbagliata e guido verso Colombo per una decina di minuti. Mi accorgo di avere il Sole sull’altra gamba (quella meno ustionata), poi mi blocco pensando… cazzo, sto andando verso nord!
Torno indietro e nel giro di un paio d’ore (e per un totale di cinque) sono finalmente a Hikkaduwa. Trovo un ostello e già sul cortile d’ingresso mi scambio un’occhiata interessata con una ragazza carina carina che sta uscendo in spiaggia. Le mie vacanze sono ufficialmente iniziate.

VIDEO DEL GIORNO: Chitty Chitty Bang Bang (Quagmire version)

Jet Lag a Negombo

Tre del mattino, occhi spalancati. A Berlino, la città dove vivo e dove ho preso l’aereo, adesso sono le dieci e mezza di sera. Ma che cazzo ci faccio sveglio? Il volo è durato qualcosa come dieci ore, Dalle nove di sera fino alle sette del mattino. Mezzogiorno per l’ora locale.
Stavolta il volo è stato lungo, noioso e sofferto. Ho mangiato qualcosa a cui ero intollerante e mi è salita una stretta in gola. Per fortuna avevo gli antistaminici in gocce, quelli con l’effetto più rapido, ma mi hanno dato una nausea terribile e ad una certa ero zuppo di sudore, gelido e a un passo dallo svarione. Mi è già successo di stare male in aereo, una decina di anni fa. Quella volta ho deciso di alzarmi per vomitare in bagno. Ero quasi arrivato, stavo girando la maniglia e poi… blackout. La cosa successiva che ricordo erano le facce degli Stuart che mi guardavano preoccupati, cercando di farmi rinvenire, e tutti i passeggeri si erano sporti dai sedili in cerca di intrattenimento. Insomma, meglio sfilare il sacchetto dal sedile ed aspettare.
Finalmente atterriamo a Colombo. L’aria è calda e piacevole (almeno per i miei standard) e la gente di certo più sorridente del posto da cui sono partito. Trovo un Tuk Tuk che mi porta a Negombo per mille rupie (cinque euro). Il cingalese che lo guida si chiama David, come me. Gli chiedo se sa dove posso comprare una moto.
«Noleggiare?»
Boh, sì… «Noleggiare.»
«Andiamo a vedere il mio amico. Poi all’ostello.»
«Perfetto.»
Passiamo per il centro di Negombo, uno strano misto di mercanti, mendicanti e… presepi. Sì, presepi! La scena della natività con statuine grosse almeno trenta centimetri. Per me il presepe con trenta gradi non ci azzecca niente, ma è solo perché per me Gesù è una tradizione invernale, come il vin brulé. Passi questo, ma l’albero di natale con gli addobbi e le lucine? Mentre ci penso, arriviamo all’agenzia dell’amico di David, ma il tipo non c’è, così ci infiliamo in altre agenzie limitrofe. Con otto dollari al giorno si può affittare uno scooterone, con tredici una moto da 200cc col cambio manuale. Il tipo dell’agenzia più promettente mi chiede che giro voglio fare, al che mi ricordo del treno per Kandy.
«Vorrei girare le spiagge della costa a sud ovest…» Gli spiego. «poi a nord, nell’entroterra. Ma da Ella ho il treno… e come si fa?»
Il tipo subito propone di portarmela lui a Kandy.
«Cioè tu verresti ad Ella per portarmi la moto a Kandy, dico bene?»
«Sì.»
Cazzo, penso, ma allora posso tirare il prezzo a bomba.
«Ci devo pensare, scambiamoci i numeri di telefono.»
«Whatsapp…» conferma lui. «scrivimi pure lì!»
Sono proprio un portafogli con le gambe.
Torno al Tuk Tuk, raggiungo l’ostello e saluto David. Per ringraziarlo, le mille rupie diventano mille e cinquecento e lui ne è davvero sorpreso e contento.
«Chiamami quando vuoi, ti vengo a prendere!»
Mollo lo zaino in camera. Sono già le tre del pomeriggio, ora locale. Mi butto nel letto e dormo come un sasso per un’ora e mezza. Mi sveglio completamente intontito, vorrei dormire ancora, ma è meglio di no. Il tramonto è tra meno di un’ora, così indosso il costume e vado in spiaggia.
Stormi di uccelli seguono la linea della costa, volano verso est. Poco prima di sparire oltre l’orizzonte, il Sole viene coperto da una nuvola passeggera. Mano mano che continua a calare, le spunta da sotto come un tramonto alla rovescia. In un minuto è di nuovo un cerchio giallo e arancione. La foschia lo deforma, disegna le sue striature sul disco e lo oblitera dal cielo.
Poco più avanti sulla spiaggia c’è un piccola folla di gente del posto e bancarelle di gamberi fritti. Nessuno sembra comprare quella roba, tantomeno io. Torno in ostello a lavarmi, mi copro di DEET e vado a controllare un’intersezione della vita notturna di Negombo, ma il tipo che l’ha suggerita su TripAdvisor doveva essere un gran simpaticone, perché qui non c’è niente, solo un sacco di macchine che si sorpassano a vicenda in balia dei pedoni.
Torno sul lungomare, già rassegnato a mangiare in un ristorante per turisti. Ce n’è uno greco, uno italiano, uno indiano che comunque serve la pizza. Passeggio ancora un po’ e trovo un chiosco che frulla la frutta fresca, una specie di capanna in stile Reggae giamaicano. Dietro al bancone c’è una bandiera cingalese (un leone dorato con una spada in mano su sfondo rosso ed una striscia verde ed arancione a sinistra).
Scopro una quantità di frutta nuova, mai sentita finora: Wood Apple, Namnam, Custard apple, Ambarella, Bael, Egg fruit, Nelli… ogni smoothie è proposto elencando le proprietà del frutto. Scopro che la frutta non solo aiuta contro la costipazione, ma anche contro la cellulite e pure il cancro. Su uno c’è scritto “High enough to defecation”, ma credo sia un errore di traduzione.
Il tipo mi propone del Soursop (della graviola), un frutto verde, butterato e bruttino ed è inaspettatamente buono! Gli chiedo allora dove posso mangiare un boccone.
«…anche del cibo di strada.»
«Di strada?»
«Basta che è buono.»
«Prova qui di fianco, fanno il Kottu
«Qui di fianco?» Ripeto indicando l’edificio che si deve dal chiosco.
«Senti dove fanno il rumore “cica cicàaaaa”» Dice lui agitando un grande vassoio invisibile.
Dal chiosco, mi ritrovo in una bettola stretta, sporca e sostanzialmente indecente. I prodotti sono esposti da così tanto tempo che il Sole ne ha sbiadito le confezioni. Chissà se qualcuno non è ancora scaduto.
Il tipo alla cassa mi ignora alla grande, lascia passare tutti quelli dietro di me, ma non demordo.
«Kottu Chicken.» Reclamo scandendo bene le parole.
«Kottu Chicken? Ok ok.» E ondeggia la testa a destra e sinistra come gli indiani dell’india. Attorno a me mangiano tutti con le mani, ma il tipo della bettola, di sua iniziativa, si premura di servirmelo con un cucchiaio.
C’è un grande andirivieni di gente che compra il Kottu d’asporto. Alcuni sembrano sorpresi di vedermi lì, perché mi guardano e sorridono con una vena di stupore disegnata sulle sopracciglia. Mangio, pago trecento rupie (un euro e mezzo) e me ne torno in ostello.
Vorrei fare amicizia con qualcuno, fare quatto chiacchiere, ma gli unici ospiti sono dei cinesi cafoni e rumorosi, che urlano, sbattono le porte… il vecchio cingalese dell’ostello, un tipo dalla pelle secca e i capelli bianchi d’avorio, viene a dirmi di stargli alla larga.
«The lady talk… uhhhhh.» Il vecchio, con una mano aperta, disegna dei piccoli cerchi nell’aria e fa la faccia disturbata di chi vorrebbe solo un po’ di pace.
Non so, forse ho troppe aspettative sul tipo di viaggio che vorrei che non accolgo gli accadimenti che non rientrano nella mia immaginazione… o forse sono solo in un posto di merda.
Insomma, qui si sono fatte le quattro del mattino e niente, ho perso un po’ di tempo scrivendo un po’ di roba a caso.

PAROLA DEL GIORNO [cingalese]: ස්තුති, stuti (grazie)

Warmmiete

«I don’t know if I want to drink tomorrow. I’m going to buy a bottle anyway.»

 
«That’s the spirit.»

 

(A forgotten note on my phone)

Notizie da Berlino. Le droghe sono state ufficiosamente legalizzate. Insieme al calcio, gli appuntamenti on-line e l’alcool, l’argomento è entrato a pieno titolo nelle conversazioni coi colleghi del lavoro.

Che prendi? È roba buona? Mi passi il contatto?

Siamo tutti così stressati ed infelici che l’unica aspirina dotato di efficacia è l’ecstasy, una manciata di ore di rilascio forzato di serotonina prima della settimana lavorativa.
I dipendenti delle start up vengono pagati il minimo per essere tenuti buoni, per non mandare i manager a fanculo o, peggio, perpetrare una carneficina. La loro motivazione, a parte l’affitto da pagare, è alimentata da incontri trimestrali, momenti in cui i C-level lodano l’operato del dipendente di turno: la presa per il culo a base di apprezzamenti verbali e nessuna sostanza nei fatti.
Anche loro, come tutti gli altri, sono stressati fino al midollo, ma quando la macchina sarà rodata, quando la start-up diventerà un’azienda vera e propria, saranno i soli a beneficiarne. Alle loro spalle, a terra, ci sarà una quantità di ex-dipendenti, sparpagliati come alberi abbattuti per realizzare una strada.
Il concetto di benessere ha preso il posto della serenità. La promessa di una fetta della torta, quanto basta per comprarsi qualcosa di invidiabile, è la ragione per la quale adesso viviamo in città congestionate ed inquinate, ci stipiamo nei vagoni della metro per andare a lavoro. Il nemico numero uno è il barbone.
L’idea di base è condurre una vita di merda per guadagnare abbastanza per non condurre più una vita di merda. Se avessi meno vizi avrei anche meno bisogno di soldi e più serenità, ma ormai chi ci pensa più? L’obiettivo di oggi è il monolocale di quaranta metri quadri col balcone, il balcone! Ma davvero hai un balcone? Ma che figata! Puoi fumare sul balcone, mangiare sul balcone, guardare fuori dal balcone.
Da quando il riscaldamento globale ha teletrasportato Berlino nel mediterraneo tutto vogliono la casa col balcone. I proprietari delle case hanno già fiutato l’affare: impongono di installarli per aumentare l’affitto di duecento euro per appartamento, ovviamente senza porre come limite il recupero della spesa. Duecento euro in più al mese per tre metri quadri di casa in più.
Le periferie di Moabit a Lichtenberg cominciano a sembrarmi un po’ meno deprimenti; mi sento già abbastanza depresso da solo.

Scrivi da ubriaco, correggi da sobrio

La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia.

 

Primo Levi (L‘altrui mestiere, 1985)

C’era qualcosa che volevo scrivere, ma non la ricordo più, l’ho persa. Dicono che quando accade è perché si stava per dire una bugia, come se la mente operasse una sua forma di rifiuto contro una cattiva abitudine.

La voglia di scrivere, l’ispirazione, mi coglie sempre nei momenti più imprevisti ed inopportuni, come un’erezione in un ascensore affollato. Allora ho l’istinto di prendere il telefono e scrivere per ore. Scrivo nei club, nei bagni dei bar, insomma in tutti i posti dove vado ad ubriacarmi. Il nesso è ovvio, ma sono troppo sobrio adesso per trovare le parole giuste per spiegarmi.

Truth

I was determined to have done with conjecture and discover the truth, even if, a I imagined it would, the truth proved incomprehensible.

– Stanisław Lem (Solaris, 1961)

P.S. La traduzione Mondadori (edizione “Omnibus” del 2003) è terribile: “Volevo smetterla con le supposizioni e conoscere la verità, ma non riuscivo a figurarmi come fare.”

Eh??

La traduzione letterale è già migliore: “Ero deciso a farla finita con le congetture e a scoprire la verità, anche se, come immaginavo, la verità si rivelò incomprensibile.”

Sally Bowles

«Ti secca se mi stendo un po’ sul tuo divano, gioia mia?» Domandò Sally, appena fummo soli.
«No, certo.»
Si tolse il cappello, sollevò le gambe e le posò sui cuscini. Ai piedi aveva un paio di scarpette di velluto: poi aprì la borsa e cominciò a darsi la cipria: «Sono superarcistanca. Stanotte non ho chiuso occhio. Ho un nuovo amante, è un uomo favoloso.»
Cominciai a versare il tè. Sally mi lanciò un’occhiata furtiva.
«Ti scandalizza come parlo, Christopher, gioia?»
«Nemmeno un po’»
«Ma non ti piace eh?»
«Non mi riguarda»
Le porsi la sua tazza di tè.
«Oh, santa paletta!» Esclamò Sally. «Non metterti a fare l’inglese con me! Quello che pensi ti riguarda eccome!»
«Allora, se proprio ci tieni a saperlo, diciamo che trovo l’argomento piuttosto noioso.»
Questo la irritò al di là delle mie intenzioni. Cambiò tono e disse, fredda: «credevo che mi avresti capita.» Sospirò. «Ma dimenticavo… che sei un uomo.»
«Scusami, Sally. Non è colpa mia se sono un uomo, ti pare? Comunque, per favore, non essere arrabbiata con me. Volevo soltanto dire che secondo me ti esprimi in quel modo per nervosismo. Di tuo, saresti molto timida con la gente che non conosci, per cui hai trovato questo stratagemma e provochi l’altro perché ti accetti o ti rifiuti subito, senza vie di mezzo. Lo so perché anch’io reagisco così, a volte… ma vorrei che con me lasciassi perdere, perché con me non attacca e mi metti solo in imbarazzo. Se anche tu andassi con tutti gli uomini di Berlino e ogni volta, dopo, venissi a raccontarmelo, non riusciresti a convincermi che sei una dame aux camélias perché, diciamolo chiaro e tondo, non lo sei!»
«Già… forse no.» Sally aveva parlato con voce cauta, impersonale. Quella conversazione cominciava a piacerle. Forse ero riuscito a adularla in un modo nuovo. «E allora cosa sono esattamente Christopher, gioia mia?»

 

– Christopher Isherwood (Addio a Berlino – Sally Bowles, 1939)