Neukölln Neukölln

A lavoro c’ho questa tizia che me le strarompe. S’ammazza di lavoro, lei, così s’aspetta che facciamo tutti lo stesso. Pause pranzo al computer (risicate), scadenze pazze… che poi questa mette pure zizzania, fa dei casini allucinanti e poi tocca a me mettere tutto a posto. Insomma, diciamo che io ho ragione e lei ha torto, e andiamo avanti.

Ho appena finito una videochiamata con questa che bla bla bla e di nuovo a scassarmele che alla fine spingo la sedia all’indietro e, ok, qui ci vuole una pausa. Lavoro da casa per la metà del tempo, così a sto giro scendo in strada e mi faccio una bella passeggiata verso il chiosco del caffè. Aria fresca e buona, col covid che ha fermato fabbriche, macchine e aeroplani, un bel Sole e pure i passerotti che cinguettano.

Due chiacchiere inutili col tizio del chiosco e qui mi siedo dall’altra parte di un tavolo all’aperto con questa signorona grossissima. Ha i capelli biondi, ma sbiaditi e sfibrati, la pelle del volto rovinata e rossa. Si regge la testa con la mano e tra le dita tiene incastrata una sigaretta. le manca solo una bombola dell’ossigeno e sarebbe perfetta. Io di solito cerco di non notare troppo queste cose, ma qui gioco d’anticipo, perché la signorona è una stronza incredibile.
E infatti, si avvicina una mendicante e comincia la cantilena sugli spiccioli. Io non c’ho voglia di sentirmi tutto il disco, conservo pure un fondo di umanità, e le mollo una bella moneta pesante da un euro. La mendicante, una signora forse della stessa età della stronza, ma magra, rugosa e bruciata dal sole, s’attacca che vuole di più. Uh, me povera io da prego uh eccetera. No vabbé, ti ho mollato un euro, per oggi basta così, dai. La mendicante capisce e si sposta al tavolo alle mie spalle e qui la signorona mi lancia un commento dall’altra parte del tavolo.

Parla in tedesco duro e capisco solo qualche parola, tra cui Odbachlos (senza tetto), Finanzamt (l’ufficio delle tasse e dei sussidi) più qualche altra cagata.
Signora, dico io angelico, desideroso di finire la colazione in pace, avevo un euro… gliel’ho dato. Tutto qui. Ma la signorona non ci sta, rincara la dose, attacca in un rantolo di Ausländer (stranieri, ma nel senso di immigrati) e Ärme (poveri) e di nuovo Finanzamt Finanzamt Finanzamt.

Allora… signora, sto facendo colazione a quattro euro e passa per cornetto e cappuccino, c’ho in mano uno smartphone da cinquecento euro… glielo posso pure dare un euro a questa poveraccia. Non è che quella è diventata povera apposta per romperti le palle. Le dico tutto questo, a parte l’ultima, sperando che la stronza abbia di che riflettere (e di che vergognarsi) per lasciarmi in pace, ma niente… giù di nuovo col Finanzamt, coi sussidi, con gli immigrati di merda, al che ingollo il fondo del cappuccino, mi alzo e me ne vado con questa che ancora sta a parlare.

Ritorno sui miei passi, rintraccio Sole ed uccellini, bisognoso di un po’ di pace prima di ricominciare a ciucciarmi la stronza del lavoro. Sto attraversando un bel viale alberato, di quelli con le panchine, il parco giochi e il limite di trenta chilometri all’ora per le macchine, ma appena che metto il piede giù dal marciapiede mi vedo ‘sto macchinone che mi pianta il muso davanti e inchioda. Passo dall’altra parte e e lui c’ha pure il finestrino abbassato che vuole dirmi qualcosa. Io lo guardo allibito e il tizio mi fa Ah, Du hast keine Bremsen? (non ce li hai i freni?).
Ho già dato fondo alla pazienza con la stronza del bar che non mi va di spiegargli che io sono un pedone e lui è una merda, ma mi ritrovo a corto di parole. Agito la mano e mi limito a mandarlo a fare in culo (ha la macchina, fa presto ad andarci). Gli do le spalle e qui lo sento sbraitarmi da dietro Oh, fuck yooou! con enfasi.

Esplodo.

FUCK ME??? AH!? FUCK ME??? gli mollo un cazzotto sul finestrino semiabbassato che quasi glielo mando in pezzi. Voglio aprire lo sportello e strascinarlo fuori dalla macchina, ma lo sportello è chiuso, e allora giù a dare calci allo sportello. Salto dall’altra parte e gli prendo a cazzotti quella merda di macchina che questa comincia barcollare a destra e sinistra. Gli mollo un cazzotto al finestrino proprio dove c’ha la faccia, perché tu, oggi, paghi per tutti quanti.
ESCI DA QUESTA CAZZO DI MACCHINA!!! ESCI, OH ESCI PER FAVORE CHE TI DEVO AMMAZZARE! Provo l’altro sportello, ma il tipo sta barricato dentro. DU STUCKSCHEIßE HAST KEIN RESPEKT FÜR DIE FUßGÄNGER!!! UH!? Non mi riesce nemmeno di parlare in tedesco, ma col cavolo che gli parlo in italiano, così mischio il crucco con l’inglese. ESCI PORCA MADONNA, ESCI CHE TI DEVO AMMAZZARE! Sbatto entrambe le mani contro la macchina e il tipo dentro va nel pallone e non sa più che fare. FÄHR!!! GUIDA, FIGLIO DI PUTTANA, VATTENE! TI CI ACCARTOCCIO DENTRO A ‘STA MACCHINA DI MERDA, RAUS!!! e giù calci alla macchina. Riesco appena a non colpire il vetro troppo forte, che i finestrini con un pugno buono vanno in frantumi e poi per orgoglio sono costretto a tirarlo fuori dalla tana.
Il tizio fa scattare la macchina in avanti, ma si ferma un paio di metri più avanti, incerto, perché certa gente crede che seguire le regole significhi avere ragione e però anche avere diritto a comportarsi da stronzi.

Atterro un’ultima manata alla macchina, ma il momento è passato, così finisco di attraversare il marciapiede e riprendo a camminare evitando di incrociare lo sguardo dei passanti che si sono fermati a guardare la scena. Cammino spedito fino all’angolo e poi mi ricordo di voler camminare piano, di respirare. Sgombro la mente e mi sento bene… davvero, come se avessi appena mangiato qualcosa di squisito. Libero i polmoni, li ricarico di aria e sono di nuovo calmo. Torno su, mi ripeto alla scrivania e riprendo al giornata di lavoro, sereno. M’ha fatto proprio bene uscire a fare due passi.

Parola del giorno (de): Fußgänger (pedone)

Dear Facebook

What’s on your mind, asks Facebook.

Since you’re asked, oh dear, I’m pissed off. Not because of the rona, not because of the world. The world is doing just fine. I’m pissed off because I opened my heart and again someone trashed it lightly. I don’t know if I should just learn to let it go, to give in to a dimmed life, dimmed emotions, or… I don’t even know what anymore.
Some people are lazy, some other just afraid. Maybe I should just stop being afraid myself and let go. Let go of giving too much of a shit, too much of a fuck. Learning, finally, that love is just another responsibility to be dealt with, as anything else. What a tragedy, what a waste.
I’m tired and it’s a tiredness that comes from deep inside. Yet, I know that I’m better than all of this, better than getting carried away by trivialities, better than begging for crumbles.
I’m better than this, yet sometimes I feel so little I’d rather disappear.
Everything is to lose. What an irony. I guess I was careless of the only thing that matter: myself.

Let go

«That kid, Guy, he has a spark. He is a pure account man.»

«And what is that job all about?»

«I don’t know. It’s about listening to people and never saying what’s really on your mind.»

«No. It’s about letting things go so you can get what you want.»

Mad Men S03E06

Contrattempi e contratture

Mi raccomando…

– Mamma

Nei paesi in via di sviluppo il codice della strada rappresenta solo metà delle regole, l’altra metà è una serie di norme non scritte, nonché piene di eccezioni, alla quale bisogna adattarsi alla svelta. Ci sono regole da seguire con la testa e altre da seguire con la pancia.

In aggiunta al traffico, anche la condizione delle strade e dei mezzi che circolano deve essere presa in considerazione. Gli autobus, i camion, ma anche i mini-van esalano certe scure meccaniche che ogni volta che ne respiro una mi sembra di aver appena perso un anno di vita. Sorpassare i mezzi pesanti è pericoloso, ma guidarci dietro è tossico. Tanto vale godersi l’ebbrezza del rischio.

Oggi ho scoperto che i mezzi con cattiva manutenzione perdono olio, parecchio olio. La traiettoria di mille macchine e furgoni è una striscia nera sull’asfalto. La striscia indica la traiettoria migliore (comincia nel punto in cui danno gas) ma è anche bene starci alla larga.

Stò proprio scendendo i tornanti di Nuwara Eliya, verso Nanu Oya, una bella strada asfaltata, larga e non troppo in pendenza, quando a metà dell’ennesima svolta, quando sono già inclinato, mi trovo davanti una grossa chiazza di olio nero e viscido. Non sono nelle condizioni di fare nulla se non passarci sopra e scivolare rovinosamente a terra. Non stavo andando troppo veloce, ma anche solo a trenta all’ora un ginocchio a terra è un dolore che non ti dico. Una dozzina di passanti vengono ad aiutarmi. Sollevano la moto (liberandomi il piede) e mi aiutano a metterla sul ciglio della strada.
Un guidatore di Tuk-Tuk comincia a ripetere la parola ospedale ed è chiaro che mi ci porta lui. Piego la gamba e mi sembra che, escoriazioni a parte, non mi sia fatto niente di serio.
«Non credo di averne bisogno.»
Il guidatore, appurato che non prenderò il suo tuk-tuk, smette di preoccuparsi della mia salute e se ne va.
Un secondo cingalese mi chiede da dove vengo (ovviamente), poi mi dice:
«Ho guidato in Italia, in Francia… ma in Sri Lanka non guido!»
Ho fatto un po’ di danni alla moto: La leva del cambio è completamente storta ed è difficile cambiare marcia. Il paraurti del motore è visibilmente storto, così come quello a sinistra del manubrio.
Dopo qualche tentativo, il motore si accende e scendo fino al paese più vicino per disinfettarmi. Con me ho solo dell’alcool da farmacia che brucia da morire. Attorno a me si è già formato un nuovo gruppo di Cingalesi che ridono ogni volta che mi stropiccia la faccia in una smorfia di dolore. Fumo una sigaretta per calmare i nervi, poi scendo di altri venti chilometri per comprare tintura di iodo, garza e cerotti. Vorrei dell’antisettico in spray, ma è già da una settimana che lo cerco e ancora non lo trovo.

Ci sono due tipi di centauri, quelli che sono caduti e quelli che non sono caduti ancora.

– Detto popolare

Da Nanu Oya in poi, la strada è decisamente più trafficata delle altre e mi rendo conto che guido su una macchia d’olio lunga chilometri e chilometri. Ce n’è praticamente una ad ogni svolta. Procedo piano e di malumore… non tanto per essere caduto, ma perché adesso ho paura di cadere di nuovo e guido come un imbranato. I motorini mi suonano perché non sorpasso.

Ad ogni modo, le disavventure non sono di certo terminate. Batto il piede sul piccolo gradino della porta del bagno dell’ostello e l’alluce diventa blu nel punto più assurdo. Se prima era zoppo, adesso sono super zoppo.

Sulla strada per Polonnaruwa un insetto mi si schianta sulla faccia mentre sto andando a ottanta all’ora. Il vento lo tiene premuto nella piccola conca sotto all’occhio e devo usare la mano per liberarmene. L’insetto intanto mi infila il pungiglione proprio sotto la palpebra. Guido con un occhio strizzato per dieci chilometri, bestemmiando tutti i santi che conosco. É solo quando mi fermo che mi rendo conto di avere ancora il pungiglione nella carne.

Adesso che sono di nuovo in pianura la segnaletica si arricchisce di nuovi segnali. Sono tutti dei rombi gialli con una cornice nera, ma all’interno ci trovo la sagoma di un elefante, quella di un iguana… Dopo nemmeno un’ora ne vedo uno attraversare la trada. È lungo un metro e mezzo ed ha dei cerchi colorati sul dorso. Mi fermo per fargli una foto, ma lui si va a riparare in un campo di riso sgusciando via oltre il ciglio della strada.

La strada appartiene a qualunque cosa di muova. Mezzi, passanti, biciclette, ma anche e soprattutto cani. Dormono nel bel mezzo della corsia (perché l’asfalto è caldo) e sono così stupidamente tranquilli che alzano la testa solo se sentono che qualcuno gli sta passando troppo vicino. I cani che però mi fanno paura sono quelli che camminano proprio nel mezzo, perché sono imprevedibili. Rischio di metterne sotto almeno un paio; francamente ho più paura di cadere dalla moto che di ucciderli.

Il giorno dopo (“dopo” nel senso di dopo la fregatura di Polonnaruwa, un sito archeologico da venticinque dollari a ingresso) mi rendo conto che per cambiare le marce devo sollevare la gamba. All’inizio penso che si è allentata la leva del cambio, ma all’ennesima marcia devo sollevare la gamba di quasi dieci centimetri e la marcia ancora non entra! Guardo in basso e la leva è tutta penzoloni sotto al mio piede.
Merda: si è spezzato il supporto in pressofuso del cambio!
Resto bloccato in seconda, ma trovo un meccanico a pochi chilometri che mi salva la vita improvvisando un nuovo pezzo.
Mentre sono lì ad aspettare, chiacchiero con un Cingalese dall’inglese sciolto. Mi dice che siamo nel bel mezzo della riserva di Minneriya ed è pieno di elefanti selvatici.
«C’è una scorciatoia per Sigiriya…» Continua lui. «ma a quest’ora è pericoloso… gli elefanti si postano al tramonto e se sei troppo vicino fanno la carica.»
«Che faccio se me ne trovo uno davanti?»
Lui ride e fa il gesto di dare gas con il polso. «Però la strada è stretta, non puoi fare manovra.»
Insomma, se l’elefante mi trova sono fottuto.
«La strada normale andrà benissimo.» Concludo io. Spengo la sigaretta a terra e finalmente la moto è pronta. Il meccanico, a gesti, mi dice che devo cambiare il pezzo, che così non va bene. Lo ringrazio (ma gli darei un bacio in bocca) e riprendo la strada.
Google non sa niente degli elefanti selvatici, perché dopo nemmeno dieci minuti mi trovo in una strada stretta che attraversa la foresta: esattamente la strada che mi ha descritto il tipo di prima. Me ne accorgo troppo tardi e ormai ci sono dentro. Giuro, non ho mai guidato in un silenzio più religioso. Resto col fiato sospeso per venti minuti e ad ogni svolta ho l’impressione di vedere la sagoma di un elefante. Ho anche paura di sopravvivere e vederlo calpestare la motocicletta. Comunque… sono quasi arrivato a Sigiriya che vedo un ingorgo davanti a me. Tuk-tuk, scooter ed un paio di Jeep per il safari.
«Che succede?» Chiedo io.
«Elephants, Sir»
La gente paga un sacco di soldi per il safari. A me basta guidare al tramonto per vederli gratis, ma anche no, grazie. L’ingorgo si scioglie e finalmente arrivo all’ostello. Dormo in tenda, circondato dai mille rumori della foresta attorno a me. Sono super zoppo, ho un occhio gonfio e guido una moto che sta insieme con lo sputo, ma mi basta stendermi a letto, immerso in questi suoni, per ritrovare la pace.
Durante la notte, sento alcuni scrosci di pioggia, richiami misteriosi ed il ringhio del cane dell’ostello che tiene lontano chissà quali animali esotici.

LXXXV

Da un paio di settimane a questa parte, durante il mio primo viaggio in Sri Lanka, ho provato a scrivere dei posti che ho visitato, delle cose che ho visto. Gran parte di questo materiale, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per mancanza di voglia, è morto in una bozza.

Spesso, quando ammiravo un paesaggio o la natura incredibile di quest’isola, mi sono tornati in mente i versi di una poesia di Tagore, LXXXV.

Chi sei tu, lettore, che leggerai le mie poesie
tra cento anni?
Non posso mandarti un solo fiore di questa ricca primavera,
né darti un solo raggio d’oro delle nuvole
che mi sovrastano.
Apri le tue porte, guardati intorno.
Nel tuo giardino in fiore cogli i fragranti ricordi
dei fiori sbocciati cento anni fa.
Nella gioia del tuo cuore che tu possa sentire
la vivente gioia che cantò, in un mattino di primavera,
mandando la sua voce lieta, attraverso cento anni.

E niente, mi andava di condividerli.

Il Karma esiste

Stamattina mi sono alzato quand’era ancora buio, mi sono preparato in silenzio e sono uscito per salire su Ella’s Rock, una collina che domina il paese di Ella, per vedere il sorgere del Sole.
Cammino lungo i binari del treno per una cinquantina di metri, imbocco un sentiero di terra battuta e oltrepassa un ruscello su un ponte in cemento.

In lontananza sento il richiamo dei pavoni selvatici. Somiglia vagamente al miagolio dei gatti, ma molto più forte. Dei cani rispondono al richiamo abbaiando. Di tanto in tanto, scorgo qualche lucciola che lampeggia il suo richiamo amoroso.
Sono troppo assonnato per preoccuparmi di ragni e sanguisughe. La mia unica preoccupazione è arrivare in cima al colle in tempo per vedere il Sole fare capolino nel nuovo giorno.

Quando il cielo è già schiarito verso est, il canto dell’Azan richiama alla preghiera i musulmani e so che mi devo affrettare. Raggiungo la mia meta dieci minuti prima dell’alba. Mi metto a sedere su una roccia ad un metro dal dirupo ed aspetto in silenzio.
In basso, verso ovest, il villaggio è ancora avvolto in una foschia densa e circoscritta; le nuvole cominciano già a tingersi di rosa.

Quando è tutto finito torno all’ostello, raccolgo le mie cose e faccio un salto ad Ella per completare la colazione con un caffè. Forse il mattino è cominciato troppo bene, non so, ma da questo momento in poi le cose andranno di merda fino al tramonto. Perdo un’infinità di tempo a trovare un nuovo ostello (il primo l’ho dovuto lasciare perché una comitiva ha occupato tutti i letti stanotte) e quando lo trovo entro passando per uno sterrato pazzesco, tant’è che finisco disarcionato e mi si rompe uno degli specchietti retrovisori (di nuovo!!! – l’avevo appena cambiato). I tipi dell’ostello mi vedono arrivare come un disperato.
Sono così agitato che incasino i convenevoli. Loro fanno tutti i gentili, mi offrono il tè, ma l’unica cosa che riesco a chiedere è un set di chiavi inglesi per sistemare il danno più importante alla moto.

Quando guido verso le cascate di Diyaluma sono già le due del pomeriggio.
All’inizio volevo vedere il paesaggio dal belvedere di Lipton’s Seat, ma non voglio arrivare alle cascate troppo tardi, altrimenti farà troppo freddo per farsi il bagno. Salto il belvedere, faccio un pausa pranzo e perdo ancora tempo prezioso.

Arrivo alle cascate alle quattro e mezza. Scrocco una sigaretta ad una tipa tedesca (sono dappertutto) e il suo autista Del tuk-tuk mi dice che la cima delle cascate dista solo un chilometro dalla base. Prova anche a rifilarmi una guida, ma preferisco fare da me.
Imposto Google Maps in modalità Satellite e trovo un punto dove la strada passa vicino alla cima delle cascata. Impiego venti minuti ad arrivarci e il cellulare segna già la cinque (il tramonto è alle sei).
Un signore si sbraccia per inviarmi l’inizio del sentiero per le cascate. Mi fermo, parcheggio, lo ringrazio e faccio per avviarmi, ma lui mi segue. Vado da solo, gli dico, ma lui insiste per accompagnarmi. Divento più categorico e lui subito unisce pollice ed indice e mi chiede dei soldi.
«Perché mai dovrei pagarti?»
Lui sembra volermi dire che è una strada privata o che cavolo ne so. Mi accorgo che è anche ubriaco.
«Vuoi dei soldi…»
«Sì»
«…per attraversare il sentiero?»
«Sì»
«quindi mi dai il biglietto d’ingresso»
«Uh?»
«Ciao.»
«Sir!»
Signore tua sorella. Imbocco il sentiero con lui che ancora blatera qualcosa.

Dopo una decina di minuti sento il vociare della gente che fa il bagno. Mi animo al pensiero di immergermi finalmente in acqua, punto dritto in basso e mi infilo in quello che mi sembra la continuazione del sentiero, ma forse è solo il solco lascia dall’acqua piovana. Senza rendermene conto, mi infilo in un cazzo di cespuglioDalle foglie spinose che mi irritano le braccia. Scivolo sul letto di foglie e bestemmio la madonna. Provo a tornare in cima, ma una pietra su cui ho poggiato il piede si sfila dalla terra e mi fa battere lo stinco. Sono sporco, sudato, stupido e incazzato come una falena che sbatte contro una lampadina accesa.
Torno alla moto e il balordo è sparito. Proseguo per un altro paio di chilometri e stavolta comincio a vedere motorini parcheggiati sul ciglio della strada. Bingo.
Un ragazzino si avvicina e si offre di farmi da guida per raggiungere il fiume. Io mi sto ancora grattano le braccia per le piante di prima, insomma l’idea di avere un accompagnatore adesso mi va piuttosto a genio. Comincio la trattativa chiedendo se è gratis. Il ragazzino dice nooooo…
«…no gratis.»
«Quanto vuoi?»
«Mille e cinquecento rupie.»
Che è quello che pago per una notte in ostello o almeno quattro pranzi al curry.
«Bambino devi essere pazzo, ti do cinquanta rupie.»
«Nooooo, troppo poco.»
Gli mostro il mio cellulare.
«Il percorso ce l’ho sul Google Maps! le vuoi cinquanta rupie o no?»
Lui ci pensa un attimo.
«mhh, Cinquecento rupie.» Propone lui facendo scattare il petto.
Bambino, hai appena spezzato la corda. Lo saluto con la mano e mi allontano. Lui non insiste più e se ne va via.

Trovo lo stramaledetto fiume così tardi che pure quello del chiosco delle bibite se n’è andato. Restano solo un gruppo di turisti, inclusa una tipa che ha paura di tuffarsi dalla cascata (un salto più piccolo di quella principale… da quella si muore).
Sono così impaziente di farmi il bagno che mi cambio in un attimo e mi tuffo davanti a lei. Il nervosismo ha cancellato la paura di tuffarmi. Quando risalgo attacco bottone con una sua amica (guarda caso anche lei tedesca) e mi rilasso un pochettino al pensiero che, anche se per poco, ho raggiunto il mio obiettivo. Adesso tocca tornare ad Ella.

Il tramonto inizia già quando sono sulla strada del ritorno. Google mi indica un nuovo percorso, passo per un nuovo villaggio ed è una cosa incredibile. La foschia, la luce, le colline… sembra di essere in un dipinto. Mi fermo a più riprese per fare fotografie (ormai è tardi comunque) e so di avere davanti un’ora di guida nel buio più totale.
Mi intrattengo cantando Tapparella, Kristo Sì!, I Feel Good e Mi far star bene dei Ridillo e dopo un’ora e mezza sono finalmente alle spalle di Ella. Mancano solo venti minuti di strada quando questa si interrompe davanti ai binari della ferrovia. Il navigatore mi dice di andare dritto, ma è impossibile! Non vedo nemmeno la fantomatica strada dall’altro lato dei binari.
Torno indietro e chiedo ad un gruppetto cosa fare. Loro mi chiedono dove voglio andare.
«Ella.»
«Tornare indietro… molto lontano signore, vai dritto.»
«Dritto dove? Ci sono i binari…»
«Passa binari»
«Passa come»
«passa»
E fa un gesto con la mano.
«mh… non capisco… mi potresti aiutare?»
Il gruppetto (una coppia con bambino più un tizio giovane) mi accompagna ai binari. Mi fanno capire che bisogna sollevare la moto e passarla dall’altra parte.
«Ma che davvero?»
Loro ridono e cominciano a spingere. Insomma, la moto passa in mezzo ai binari per poi dall’altra parte. Attraverso il piccolo sterrato di fianco ed imbocco di nuovo la strada.
«Ma questa è roba da matti!»
Il gruppetto non ci sta nella pelle. Sono tutti divertiti dalla mia incredulità. Ride la bambina, ride la mamma, ridono i due tipi che mi hanno appena aiutato. Guido altri venti minuti e sono finalmente in ostello. Doccia, cena, birra e buonanotte.

Hiriketiya > Sinharaja

Se mi fermassi per fotografare ogni cosa che mi piace non farei che cinquanta chilometri al giorno. La moto non aiuta perché la folle non entra nemmeno a pagarla, così la spengo ogni volta che non riesco a fare a meno di fermarmi.

Hiriketiya è stato per lo più un pit stop. Il nuovo ostello non ha proprio l’energia che cerco. Ho fatto un po’ lo scemo con l’ukulele, ma non c’era niente da fare: erano tedeschi. Lascio l’ostello subito dopo colazione, dimentico il casco, ma me ne accorgo soltanto dopo un paio di chilometri. Ok, porcaput, torno indietro, lo indosso e punto ad un baretto hipster per un caffè come si deve.

Incontro un tipo inglese, Ben, che vive in Scozia. Io gli racconto di una tipa di quelle parti con la quale avevo viaggiato per un paio di settimane un paio di anni fa.
«Ero costretto a chiederle di ripetere ogni cosa che diceva. Non capivo niente! Un giorno, all’ennesima volta che glielo chiedevo, lei mi guarda con una faccia tipo “ma che stai a fare con me se non capisci quello che dico?”» Faceto, aggrotto le sopracciglia. «A me invece sembrava perfetto.»
Ben ride, si prende bene e mi snocciola un po’ di storie circa la usa vita in Scozia e i problemi con l’accento.
«…che poi alcune parole sono diverse dall’inglese. Prendi Can, in scozzese can significa know, quindi do you know? diventa do you can?»
Insomma, perdiamo un po’ di tempo insieme.
Anche la cameriera del bar (Niki?) è una tranquillona. È olandese, alta, bionda, statuaria e dagli occhi azzurri. Ha vissuto tre anni ad Ha Noi insegnando inglese.
«…mettevo da parte fino a duemila dollari al mese. Lavoravo tre mesi, poi viaggiavo per altri tre.»
«Com’era vivere ad Ha Noi?»
Lei si punta il viso. «Bionda, alta, occhi azzurri… per loro ero una dea.»
E ride.
C’è anche un’altra persona che mi attira nel bar, una tipina carina (anzi, è proprio bona) con le guance scottate dal sole e gli occhi del colore dell’acqua che di tanto in tanto mi lancia un’occhiata. Forse è il segno divino di trattenermi almeno un altro giorno? No davvero, se non mi metto un po’ di cera nelle orecchie davvero la costa non la lasciò più. Infilo la testa nel laptop, programmo la giornata e lascio che la mia occasione sfumi con lei che lascia il bar.

Mi fermo ad una farmacia per trattare un graffio al piede e pure qui mi dimentico il casco. Passo pure davanti ad un poliziotto e vengo per fortuna ignorato. La cosa divertente è che gli devo passare di nuovo davanti appena mi accorgo della mia smemoratezza e l’omino non mi becca nemmeno alla seconda.

Per un po’ seguo le indicazioni di google maps, poi devio per un percorso più lungo, ma più stimolante. Magari cos’ batto strade meno frequentate da occidentali. Ogni tanto google mi propone di nuovo il percorso più breve e quasi mi fa ridere pensare che per big G il parametro più importante sia la durata del viaggio. Spengo lo smartphone e mi godo la strada.

Dopo un pranzo nella bettola di turno (un euro e mezzo per mangiare curry su una terrazza in riva al fiume) dimentico di nuovo il casco e proseguo fino ad un acquitrino dove uno strano rumore tipo squittio attira la mia attenzione. Alzo la testa e mi accorgo che appesi ai rami non ci sono grossi frutti, ma migliaia di pipistrelli che dormono. Non decine, non centinaia… migliaia. Appesantiscono ogni singolo ramo di quattro alberi giganteschi. Ogni tanto un pipistrello si appollaia insieme agli altri e mi rendo ancora più conto delle dimensioni di questi ratti del cielo: sono grossi come gabbiani. Provo a fotografarli, ma non riesco a trovare il modo di comunicare la portata della cosa. Mi rimetto in moto e parto nell’incredulità più totale.

L’ora e mezza di viaggio prevista da google maps è già diventata qualcosa come tre, quattro ore di viaggio. Salgo più in quota, l’aria si fa più fresca e le strade si stringono fino a circa due metri di larghezza. Ogni tanto, nei posti più improbabili, incrocio un autobus tipo circolare e mi tocca mettermi sul ciglio terroso per lasciarlo passare.

Sono già così abituato a percorsi del genere che quando google mi dice di svoltare verso una salita da trenta gradi fatta di fango e sassi l’imbocco senza pensarci più di tanto. L’unica cosa che mi è passata per la testa è stata “oh, questo sarà divertente…”.
Arrivo quasi in cima al sentiero (perché di questo si tratta) che la moto va in panne, si spegne e cade rovinosamente sul fianco.

Oh, merda.

Sono in cima ad un sentiero fangoso, non ho idea di come scendere e per di più ho appena rotto un tubo dell’acqua messo a terra che sta bagnando il mio zaino con tutta la roba che ho dentro. Oh, dio del crossfit, aiutami a sollevare questa moto e non sciacquerò più via i fondi dei protein shake. Infilo i piedi nel fango e tre tentativi e parecchie bestemmie più tardi la moto è di nuovo in piedi, ma ci metto un quarto d’ora a scendere in retromarcia. Devo andare pianissimo, altrimenti la moto comincerà a scivolare e poi davvero che la distruggo.
Un signore si accorge di me e mi viene ad aiutare, spinge la moto da dietro per evitare che scivoli. Quando sono di nuovo sull’asfalto gli chiedo qual’è allora la strada per Deniyaya. Sempre dritto, mi fa capire lui. Percorro un centinaio di metri e l’indicazione di google di svoltate è sparita. La conta dei danni sono uno specchietto retrovisore in frantumi e la leva della frizione allentata. Tutto sommato poteva andare anche peggio.