Rumore

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La distanza tra Hanoi e Luang Prabang (peraltro in modalità festival) non è solo fisica… è la velocità, la scaltrezza, le espressioni sul volto della gente… il rumore! Ma andiamo per gradi.

Al confine, la guardia Vietnamita mi intima di aprire lo zaino. Svuoto la tasca superiore. Adesso questa, continua indicando sempre nello stesso punto. Ah, ma allora cerca qualcosa, ma certo Agente. Adesso punta alle mie carte da gioco… che ci sia un problema con il gioco d’azzardo in Vietnam? Apro il pacchetto e gli mostro le carte.

« sono carte da Scopa »
L’ufficiale mi indica un suo collega alle mie spalle.
« dalle a lui »
E che palle.
« …souvenir! » Aggiunge ridendo.
ah, canaglia, ma allora voleva solo vedere se nello zaino c’era qualcosa che gli interessava! Mi giro verso la guardia alle mie spalle.
« ma tu ci sai giocare a Scopa? »
La guardia guarda l’ufficiale, che traduce. Non ha la minima idea di che cosa stia parlando. Abbandona l’idea di rubarmi confiscarmi le carte e punta ai miei preservati colorati.
« …sono preservativi alla frutta »
Ne prende uno di quelli blu (che frutto sarà?) e prova ad annusarlo attraverso l’involucro. Genio.
« limone, arancia… dai prendine un paio »
(si, ho appena offerto preservativi blu da 56 mm ad un ufficiale vietnamita)
Mi lasciano rimettere tutto a posto e me ne vado. Le mie carte da scopa sono salve, senza contare i preservativi blu occidentali che alla guardia gli sarebbero andati probabilmente un po’ larghi.

Avrei dovuto volare ad Hanoi (in un’ora per 90 €), ma la Visa mi chiede il codice di conferma inviato al mio numero di cellulare, che non ha campo da quando sono in Laos. Long story short, il volo non l’ho potuto comprare e sono finito in un autobus puzzolente e da rottamare che per soli* 45 € e 31 comodissime* ore attraverso strade sterrate mi ha portato ad Hanoi.
Ho combattuto tra l’idea di suicidarmi, per via della mancanza di aria condizionata in quei 30 gradi umidi, appiccicosi e puzzolenti, e l’idea di irrompere negli uffici Visa con un’arma semiautomatica, per via che letteralmente è piovuto dentro l’autobus.

Le ultime ore le abbiamo passate in un nuovo autobus, decente questa volta, ma non prima di aver aspettato mezz’ora sotto la pioggia in un’indefinita città a sud di Hanoi. L’attesa non mi ha disturbato più di tanto, perché mi ha permesso di avere una prima impressione di quello che un po’ tutti mi hanno ripetuto dello stile di guida in Vietnam: motorini, biciclette e tir con rimorchio attraversano col rosso senza rallentare (non che vadano così veloci dopotutto), ma suonando il clacson. Lo suonano sempre. Sempre, anche quando non ce n’è bisogno, tipo riflesso condizionato. È un’abitudine fastidiosa, o forse sono le mie già 24 ore di viaggio e notizia di altre 7 ore davanti a noi a rendermi ipersensibile.

Adesso che scrivo è il giorno dopo. Sono appollaiato all’ottavo piano dell’ennesimo ostello per backpacker a fare colazione e dalle strade, oltre le fronde degli alberi che ne impediscono la vista, salgono rumori di innumerevoli clacson. Forse al mattino pure gli uccellini suonano il clacson ad Hanoi.

 
CANZONE DEL GIORNO: The Everyday Push, Photai

Boun Ok Phansa

All’alba avevo rivisto lo struggente spettacolo di centinaia di bonzi che escono dal loro monasteri e sfilano lungo l’acciottolato della via principale per ricevere le offerte di cibo dalla popolazione inginocchiata sui marciapiedi.

— Tiziano Terzani, Un indovino mi disse (1995)

Beh, non è proprio una cosa da strapparsi i capelli… I monaci, perlopiù un gruppo di impacciati adolescenti che non sanno quello che gli è consentito o no fare, scorre davanti alle file di fedeli, spesso ben vestiti e che condividono selfie al cellulare, per avere biscotti al cioccolato, coni di sciroppo di frutta e riso. Il tutto per festeggiare la fine del digiuno annuale (l’equivalente della Quaresima). Onestamente mi faceva più compassione la gente seduta ad aspettarli…

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PAROLA DEL GIORNO (Lao): Wat (Tempio)

Luang Prabang / Cascate Kuang Si

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Il viale principale di Luang Prabang, Sisavangvong Road, è tanto turistico quanto una qualsiasi via nel centro di Vang Vieng. Un turismo diverso però, diciamo l’equivalente di Porto Cervo in Sardegna: architetture francesi curatissime e carinissime e coppie di mezza età in abiti di lino che bevono il loro bel cappuccino sul balcone di uno degli innumerevoli caffé lungo la via.
Forse* sono invecchiato anch’io, o forse* non dover incrociare facce devastate mentre qualcuno rutta rumorosamente in sottofondo tipo colonna sonora giova all’umore.

Una passeggiata lungo il mercato serale basta e avanza, anzi… non è nemmeno necessaria. Il modo migliore per scoprire la città è girovagare nelle stradine attorno al Wat Manorom per un raggio di 2-300 metri. Lì non ci sono fuochi d’artificio, solo una zona residenziale poco trafficata e tanto basta per rilassarsi un po’.

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Subito a nord ci sono gli ostelli migliori della città per qualità-prezzo e a due passi dal Mekong. Sul fondo, le lunghe barche salpano puntando verso la riva opposta, poi virano controcorrente per non essere trascinate via dal fiume. Percorrono gli ultimi 50-70 metri praticamente di traverso. Sarà che ho studiato al nautico e ormai sono un nerd, ma nel loro piccolo le trovo buffissime ^ . ^

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In fondo non c’è molto da fare a Luang Prabang… salire sul monte Phousi, visitare il Wat Xiengthong (bellissimo), bersi una birra all’Utopia con vista sul fiume Nam Khan. I bar chiudono tutti prima di mezzanotte, così una delle cose più ‘tipiche’ da fare è prendere un tuk tuk fino al Bowling. Yes, bowling in Laos.

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La cosa da fare è andare alle cascate Kuang Si. Il tuk tuk / minivan ti ci porta in un’ora e poi ne aspetta tre prima di tornare indietro, ma non bastano! Troverete un passaggio a fine giornata (direi che le 5p sono un po’ il limite per non restare a piedi).

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A trecento metri dall’uscita del parco c’è un posto chiamato Butterfly Park, per fortuna/purtroppo ignorato dalla maggior parte dei turisti. L’ha aperto cinque anni fa una coppia di olandesi carinissimi…

« Siamo arrivati qui e abbiamo deciso di restare » dice lui con semplicità, e lei…

« Non sapevo nulla di farfalle prima di aprire questo posto. Adesso insegniamo ai bambini il ciclo di vita di questi insetti e loro sono sbarloditi… non hanno la minima di idea di tutto questo. È importante che lo imparino, no? Solo, dobbiamo fare tutto con calma.. appena cominci a fare qualcosa di ‘educativo’ in un paese comunista tutti diventano subito sospettosi »

« L’Ecuador ci è piaciuto di più, ma se avessimo aperto un posto del genere lì, beh, avremmo dovuto assumere guardie armate per la notte, capisci »

Visitate, visitate, visitate. Fosse anche solo per parlare con loro. Il centro è bellissimo, praticamente l’eden sotto una rete, altrimenti le farfalle volano via… come questa qui sotto. No, non è una foglia, le foglie non hanno le zampette.

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PAROLA DEL GIORNO (Lao): Laakon (bye bye)

Lhai Heua Fai

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Torno dalle cascate di Kuang Si subito dopo il tramonto, con la disperata voglia di farmi una lunga doccia e cambiarmi i vestiti.

ha ha ha.

Per fortunato caso, sono arrivato a Luang Prabang il weekend del Lhai Heua Fai (‘Festival of the Boats of Light’) e la parata delle barche è già cominciata! Ho una batteria di scorta per la macchina fotografica… puzzerò un po’ e sembro un balordo, ma sono un maschio bianco occidentale e qui in Asia non è un privilegio da poco. Insomma, posso girare lercio durante il loro giorno di festa.

Grossi draghi fatti perlopiù di ritagli di buste plastica colorata, appiccicata a strutture di legno, sono illuminati dall’interno da decine e decine di candele (evviva la sicurezza) e gruppi composti di decine di persone dai dieci ai sessant’anni ci girano intorno nervosi… sistemano questo o quel dettaglio, riaccendono una candela… hanno portato addirittura scale da imbianchino!

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Il Laos che ho conosciuto fino ad ora, pacato e tranquillo, si è trasformato in una festa chiassosa ed io l’adoro ancora di più. Gruppi di bambini armati di tamburelli fino ai denti, li percuotono, cantano, gridano, ballano, non ci stanno più nella pelle. Altri gruppi sono più ordinati e cantano insieme delle canzoncine deliziose. Ne ho registrata una:

 

 
Passeggio lungo la processione e fa niente che puzzo e sono appiccicoso… e chi ci torna all’ostello! La parata è accompagnata da sfilate di gruppi in costume. La maggior parte tiene in mano una candela in un bouquet di fiori, altri in composizioni floreali di carta, e alcune ragazze in abiti tradizionali danzano articolando le mani in sequenze sinuose.

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Si, ma insomma, che cos’è la Lhai Heua Fai? Non lo so. Solo solo che i carri sfilano fino al tempio (‘Wat’) Xiengthong e poi vengono messe in acqua. La barca che non affonda o prende fuoco è la vincitrice… per me è comunque quella con il dragone a tre teste (prima foto).
In Laos (e Paesi limitrofi) ogni azione che modifica il paesaggio viene compiuta insieme ad un rito, volto a scusarsi con lo spirito di questo o quell’elemento. Esempio: costruisci una casa? Omaggia lo spirito della terra… e mi sa che tutte questa candele galleggianti servono ad omaggiare lo spirito del fiume.

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This rite has several aims. One is in homage to the river, especially the Mekong River, which literally means Mother of All Things. It is also to ask the river and all divinities inhabiting it for forgiveness for disrespect or misuse of its water. It is also a way to send away all negativity such as sickness, bad luck, shortcoming and failure.

Source

E daje che c’ho preso.

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Vang Vieng

È impossibile sentirsi in Laos a Viang Vieng. La città è un susseguirsi di ostelli, bar, club, dubbie massaggiatrici in abito da sera e chi più ne ha più ne metta.
Presto o tardi una ragazza si avvicinerà con un blocchetto di coupon per invitarmi a bere whiskey gratis a questo o quel posto (che comunque non è whiskey, ma blando vino di riso). La ciliegina sulla merda sono i menù ‘speciali’, per bere uno shake misto erba, oppio o quant’altro.
Immagino che anche questo faccia parte dell’esperienza Laos. Bolla turistica Laos, per essere più specifici. Vang Vieng è la città dei balocchi.

Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più malefiche! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino d’infanzia, a una Disneyland senza confini. Presto anche nella vecchia, remota capitale reale del Laos sbarcheranno a migliaia questi nuovi invasori, soldati dell’impero dei consumi e, con le loro macchine fotografiche, le loro implacabili videocamere, gratteranno via quell’ultima naturale magia che lì è ancora dovunque.

— Tiziano Terzani, Un indovino mi disse (1995)

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Stamattina ho provato a chiacchierare a proposito di questo con altri backpacker, mentre facevamo colazione all’ostello. La conversazione è morta all’istante. Mi alzo, cambio tavolo per prenotare l’ostello per stanotte e li sento chiacchierare animatamente di quanto si sono devastati ieri sera.
« Erano anni che non vomitavo così » dice una ragazza. Il ragazzo seduto di fronte a lei scorreggia rumorosamente e tutti ridono. Mentre io scalo il Pha Ngeun per godermi il tramonto sopra i campi di riso, questi giovani turisti si alcolizzano a morte su ciambelloni gonfiabili lungo il fiume.

Ieri un ragazzo mi ha chiamato nonno. Ah, ma se è così io lo prendo come complimento, sai? (segue immagine da paura)

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L’idea di includere il Laos nel nuo viaggio nel Sud-Est asiatico l’ho avuta proprio dal libro di Terzani:

Il Laos non è un posto, ma uno stato d’animo, […] uno dei luoghi più romantici e quieti dell’Asia, uno degli ultimi rifugi del vecchio fascino d’Oriente. […]
Senza un accesso al mare, al riparo di impervie montagne che lo isolano dalla Cina e dal Vietnam, protetto dal Mekong che lo separa dalla Thailandia, senza un singolo ponte che unisce le due rive, il Laos […] ha continuato nel suo antico, distaccato ritmo di vita.

[…] C’è qualcosa di unico e di poetico nell’aria: le giornate sono lunghe e lente e la gente ha una quieta dolcezza che non si trova nel resto dell’Indocina. I francesi, che conoscevano bene i popoli delle loro colonie, dicevano: «I Vietnamiti piantano il riso, i Khmer li stanno a guardare e i Lao ascoltano il riso che cresce»

Ieri ho attraversato in bicicletta il ponte di legno a sud di Vang Vieng, insieme ad una carovana di dune buggy. Una volta che si sono tolti dalle palle e a dieci minuti dal paese già sembrava di essere lontani mille miglia. Senza il rumore dei motori resta solo quello del paesaggio… muggiti, cinguettii, il frusciare di campi di riso incredibilmente verdi. La bicicletta è il mezzo perfetto per gustarsi la campagna.

Ad essere imparziali bisogna dire che anche Terzani girò il Paese visitando posti e facendo cose turistiche, come scalare il monte Phou Si a Luang Prabang e vedere la Piana delle giare, fino alle escursioni a dorso di un elefante (« La mattina del primo gennaio 1993, per aggiungere simbolismo alla mia decisione [di non volare per un anno ndr], volli fare i primi passi nell’anno nuovo a dorso di un elefante. »). Il tutto con il solo vantaggio, o scusante, di essere un po’ in anticipo sulla massa che ha inevitabilmente finito per rovinare intere città e deviato economie locali.

La critica di Terzani al turismo ed alla globalizzazione la condivido in pieno (gran parte dei turisti sono solo degli zoticoni ignoranti), ma ha anche un leggero sentore di ipocrisia… o si aspettava davvero di essere l’unico a voler viaggiare in questi posti?

Ecco ad esempio cosa scriveva di Luang Prabang:

All’alba avevo rivisto lo struggente spettacolo di centinaia di bonzi che escono dal loro monasteri e sfilano lungo l’acciottolato della via principale per ricevere le offerte di cibo dalla popolazione inginocchiata sui marciapiedi.

Questa cosa esiste ancora, con l’unica differenza che adesso ci sono più stranieri ad assistere alla processione.

Se ho letto 5, forse 6 dei suoi libri è proprio per la possibilità di imparare qualcosa di vero sull’Asia, ma bisogna anche dire che il Laos ha problemi più grandi della preservazione del fascino esotico: malattie come la Malaria sono molto diffuse e la stragrande maggioranza della popolazione non conosce nemmeno l’inglese più basico.

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Quando con la mia bella bicicletta sono arrivato alla grotta Tham Poukham, ho scoperto ad esempio un centro dove i turisti consapevoli (questa parola comincia ad annoiarmi) possono insegnare l’inglese ai bambini del posto. La scuola include un piccolo ristorante, usato per sovvenzionare ulteriormente la scuola.

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L’ingresso del grotta di Tham Poukham lascia entrare abbastanza luce da poterla visitare senza troppi problemi. Decido di seguire il percorso indicato dalle frecce e sbuco in un’altra apertura immersa nel buio più totale. Punto la torcia ai miei piedi, per vedere dove cammino e noto una quantità di strani insetti (una via di mezzo tra i grilli e gli scarafaggi) che saltano via quando gli cammino vicino.

L’unica luce naturale è sullo sfondo, nel punto in cui sono passato per entrare qui, ma la foschia è così densa da non lasciarla passare. Spengo la mia torcia e provo a fare una fotografia con lunga esposizione. Niente. Spengo la macchina fotografica e resto al buio per qualche minuto, per ascoltare il rumore della grotta. L’acqua gocciola copiosa dal soffitto, credo di sentire anche il leggero cicaleggio degli insetti. Mi è piaciuto così tanto che l’ho registrato…

Il sole tramonta tra una mezz’ora. È già troppo tardi per tornare prima che faccia buio. Me la prendo comoda allora e faccio un bagno alla laguna blu (che poi è verde) ai piedi della collina. Lascio asciugare un po’ i pantaloncini zuppi di sudore e torno in sella in costume. Mi fa un po’ schifo indossare la maglietta, ma mi sono già arreso ad essere sporco e puzzolente. Poi i Laotiani credo preferiscano restare a spalle coperte.

Lungo la strada incrocio altra gente in bicicletta e a piedi. Molti gruppetti di bambini, di forse 5 o 6 anni, se ne va tranquillamente al buio sul ciglio della strada, mentre io agito la torcia alle mie spalle ogni volta che sento un motore alle spalle.
L’unica luce the i Laotiani si preoccupano di avere è quella dello schermo del cellulare, altro che magia dell’estremo oriente! Qui ci sono solo io a guardarmi intorno e alla Luna.

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[…] È di nuovo a causa della sua posizione geografica che oggi il Laos, pur con la pace, non può fare la vita che vuole, ed è costretto a diventare «moderno» […] per salvarlo dal sottosviluppo, i nuovi missionari del materialismo e del benessere economico lo stanno distruggendo.

[…] Copiare quel che è «nuovo», quel che è «moderno», è diventato un’ossessione, una febbre per la quale non esiste cura. […] Al primo segno di benessere, i bei materiali locali vengono sostituiti con quelli sintetici e i tetti di paglia rimpiazzati con quelli di bandone. […] volevo rivedere il Laos prima che anche lui, vent’anni dopo, diventasse un posto come tutti gli altri: illuminato al neon, invaso dal cemento e dalla plastica.

No Tiziano, pace all’anima tua, ma se c’è una chiosa da fare è proprio a riguardo questa storia dei neon: consumano meno delle lampadine normali e qui la gente è povera. Se ci tenevi tanto potevi pagargli tu la bolletta della luce. Non mi sembra che i Laotiani si facciano così tanti scrupoli a buttare giù tutto, pur di vivere anche loro un briciolo di quel benessere che siamo proprio noi viaggiatori ad ispirare. Vendergli il ‘loro’ stile di vita in nome della poesia sarebbe da disonesti. L’unica cosa che si può fare è trattare questa gente con rispetto, incluso quello di lasciare queste decisioni a loro, senza ovviamente tapparsi la bocca all’impulso di esprimere un’opinione. Argomentazioni nobili, certamente, ma fuori tempo massimo ed irrealistiche.

Nelle campagne ci sono varie catapecchie con tuk-tuk parcheggiati davanti, perhé guidare un pulmino è molto più conveniente che zappare la terra. Di certo meno bucolico, senza contare il numero di turisti balordi con cui bisognerà avere a che fare, ma comunque la scelta più sensata. È una semplice questione di mercato: la domanda genera l’offerta.

La ‘quieta dolcezza’ che hai descritto l’ho trovata nel receptionista dell’ostello-baraonda, proprio quello dove sui muri c’erano appesi gli avvisi di non drogarsi o scopare nei dormitori, pena multa o detenzione, o nella signora della bettola dove ho pranzato qualche ora fa, quando senza che me ne accorgessi mi ha acceso un ventilatore vicino. Le ho detto « kopchai lalaa! » (grazie mille) sventolando una mano davanti la mia faccia sudata e abbiamo riso insieme.

Insomma, c’è speranza solo se i Laotiani smettono di vivere nel fango e prendono in mano il destino della loro vita e Paese e per farlo devono progredire più velocemente di chi cerca di sfruttarli, turisti compresi.

 
PAROLA DEL GIORNO (lao): sabadee tonshao (buongiorno)

Vientiane (Templi, mercato e lallero)

Stamattina ho prelevato con la Visa*, il che significa che non me l’hanno bloccata all’istante come fanno di solito… almeno per ora.
100€ sono diventati qualcosa come 1.000.000 di kip laotiani.
Sono ufficialmente milionario.

La zona ovest di Vientiane mi aveva un po’ deluso …voglio dire, qualcosina c’è, ma niente di eccezionale, anzi. Forse perché ero troppo concentrato nel voler fare foto fighe e la luce forte del mattino è la peggiore per gran parte degli scatti. Si salvano alcune architetture francesi coloniali inghiottite dal verde. Aww.

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Passo per il That Dam (una cosa che lascia totalmente indifferenti) e poi fino ad un centro commerciale fatiscente. Cianfrusaglie cinesi a non finire, cellulari d’imitazione ed un primo piano dedicato alla bigiotteria. La cosa bella di questi ultimi negozi sono le signore che li gestiscono, perché si, per vendere roba del genere bisogna darsi un tono. Sessantenni tirate a lucido, coi capelli perfettamente raccolti, trucco di classe ed un bel materasso buttato dietro al bancone per il pisolino pomeridiano.

La perla però è il mercato diurno, alle spalle del centro commerciale… carne appoggiata sui banconi, calda sotto la cappa di calore dei tendoni che coprono bancarelle e corridoi. Se vendessero le mosche sarebbero milionari (o miliardari, secondo la valuta locale) perché quelle non mancano di certo. Qualcuno le scaccia con un bastone di legno lungo e sottile e due bustine di plastica piene di aria annodate in cima. Una signora ha persino montato il suo bel bastoncino in piedi sopra un motorino da ventilatore, così non deve nemmeno stare a preoccuparsi. Altri non lo fanno a prescindere e lasciano le mosche a decine sopra la carne, a covare le loro belle larve.

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Alcune bancarelle vendono pesce fresco, il che è un aggettivo non da poco per quello che si vede: le bacinelle traboccano d’acqua versata dentro da un tubo da giardino. I peschi non hanno il benché minimo spazio per muoversi e se ne stanno così, schiacciati come sardine (ha ha ha.), a boccheggiare. alcuni sono semplicemente morti e galleggiano a pancia in su. Insomma, ce ne da farsi venire fame… e anche ora di pranzo in fondo, ma col cavolo che mangio lì.
Molte venditrici (la gran parte sono donne) dormono sedute o sdraiate in cima alla bancarella, coi piedi vicino la carne. Qui l’unica via di salvezza è diventare vegani all’istante.

A meno che non volete fare i para-turisti vigliacchi, che fanno colazione allo Starbucks, questo posto è da mettere in cima a quelli da visitare a Vientiane, perché sporco, vivo e volgare.

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Esco dal mercato e cerco un posto per mangiare. Metto un piede nel fango, ma ormai, con quello che ho visto prima, la soglia dello schifo è molto più in alto. Rido, mi infilo in una bettola e mangio riso con pollo. A parte me, qui tutti bevono Pepsi.
Sono un po’ stanco e appiccicoso di sudore, ma davvero, una doccia risolverebbe il problema per tipo mezz’ora. Perdo un’oretta a ritoccare le foto e riposarmi e comincio il giro dei templi.

Carino il Wat Si Muang, spettacolare il Wat Sok Pa Luang. Ho chiacchierato con uno Studente, Souliya. Domani torno al Tempio, dice che me lo fa visitare e che c’è un corso di meditazione alle 3p (ogni sabato). Adesso però mi sono un po’ rotto di scrivere, quindi ecco una foto dell’unico vero grande oggetto di divinazione, il ventilatore, e buonanotte.

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CANZONE DEL GIORNO: Gold Panda – We work Nights

Vientiane (mercato serale e un temporale)

Quando sono atterrato, stamattina, avevo la convinzione che il Laos fosse super-economico, tipo “stanza singola a un euro“ Bolivia-economico. Nope. La paga media nel Paese è di circa 1€ al giorno, il che potrebbe essere vero in campagna, ma in città i prezzi sono relativamente altri.

Dall’aeroporto bisogna prendere il taxi. Non ci sono navette o circolari e il tassinaro vuole 5€ (56.000 kip) per i tre chilometri che mi separano dal centro.
« Air con! Air con! » mi ripete, alché gli dico che per me può anche tenera spenta. Come sono ingenuo. Tiro fino a 4€ poi monto su.

Il cambio è quasi 10.000 kip per 1€, il che rende facile farsi un’idea dei prezzi.

Ho un paio di ostelli sulla mappa, ma preferisco girare e lasciarmi ispirare dagli ingressi. Ci due ragazze occidentali ad un chiosco, le chiedo se possono consigliarmi un posto dove stare. Una terza ragazza nel mezzo mi chiede di ripetere, ma penso che sia la tipa del chiosco (e questo perché lei è asiatica) e dirotto bruscamente sulle due ragazze. Mi basta un attimo per capire che sono tutte insieme ed io un cafone razzista. Mi allontano borbottando tra me e me « ma che figura di meeeerda ». Ho ancora da imparare.

Insomma, sono le 2 del pomeriggio, ho uno zaino da forse 8 chili sulle spalle, fa un caldo della madonna ed ho appena scoperto di essere razzista. A questo punto mi va bene qualsiasi posto. L’ostello, Dream Home Hostel 2, è il tipico dormitorio per i vent’enni che sono alcolizzati, ma ancora non lo sanno. Su un foglio appeso al muro c’è scritto “Vodka gratis dalle 8p alle 10p”.

Prendo un letto in camerata da quattro senza finestra. Dentro c’è una puzza di piedi che nemmeno al bowling ed una coppia di viaggiatori che sta disfando le valigie. Che la puzza venga dai muri?

« ciao! di dove siete? »
« Monaco (di Baveria) »

Merda. Ok… io ci ho vissuto tre anni a Monaco, ma ne odiai il provincialismo tipico degli ottusi già dopo una manciata mesi.
Ci raccontiamo come siamo arrivati: loro in treno (bellissimo, a quanto pare, ed economico — tipo 3 €), io in aereo. Poi continuo…

« in fondo mi è convenuto l’aereo… a Berlino, al check-in per il volo per la Thailandia ho rischiato di non imbarcarmi! il mio volo di ritorno è tra due mesi e il timbro per la Thailandia vale 30 giorni. Insomma il volo per Vientane mi è servito per dimostrare che sarei restato nel Paese entro i limiti »

Il monacese scuote la testa.
« ma noi anche senza non abbiamo avuto problemi, eh »

Ci pensa un attimo. « ah, ma tu sei italiano, no? noi col passaporto tedesco, si, beh… il nostro è il migliore al mondo »

« mhh.. si, è quello che da accesso al maggior numero di Paesi » concordo diplomaticamente.

« si, si… il passaporto tedesco è il top! l’italiano va bene… ma il tedesco è il massimo. »

Lo interrompo, scendo in reception e mi faccio cambiare stanza, perché in quella da cui sono appena scappato c’è qualcosa di più fetido della puzza di piedi… e questo detto da un neo-razzista.

Nella nuova stanza incontro un’altra backpacker, ma simpatica. Sta facendo un giro in Asia prima prima di iniziare il Working Visa in Australia. Anche lei è appena arrivata e siamo entrambi allo stremo delle forze. Lei vuole dormire un’oretta, così le chiedo se per favore sveglia anche me. « ma certo! » Solo che lei è un po’ come un sacco di mie amiche, di quelle che spengono la sveglia e continuano a dormire… dopo 3 ore e mezza, mi sveglio rilassato e anche un bel po’ rintronato, ma mi ci voleva proprio una bella dormita.

Il meteo da brutto tempo tutta la notte, ma ci vuole ancora un’ora prima che cominci a piovere. Invito la tipa a farci un giro al mercato serale lungo il fiume Mekong.

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Passeggiamo lungo le bancarelle. Borse, vestiti e gadget di dubbia qualità, ma a quest’ora non c’è molto altro da fare se non bere o mangiare. Peraltro la pioggia incombe e l’aria è già piena di elettricità.

Abbiamo giusto il tempo di entrare in un ristorante che inizia a piovere a dirotto. L’ingresso è completamente aperto, tipo veranda, ma i ventilatori a muro tengono l’odore della pioggia fuori dal locale. In sottofondo sento comunque il rumore delle gocce che battono sul tendone e sulla strada e dei tuoni. Respiro a fondo e rivivo quella sensazione unica che si ha solo sotto un temporale o un cielo stellato. Fa ancora caldo e adesso umido come non mai, ma sono perfino contento di essere sudato e appiccicoso.

Beviamo un paio di Beer Lao (buona, ma fa venire il mal di pancia) e chiacchieriamo del più e del meno. Lei è scozzese, la “i” lei la pronuncia come una “e” e non riesco a starle dietro. Mi dice qualcosa sui kellin’ felds in Cambodia (killing fields / i campi dove i cambogiani s’ammazzavano a vicenda) e di questo o quel ‘fleit’ (flight / volo) da qualche parte nel Continente. Costringo la poverina a ripetere tutto almeno due volte.

Passiamo così il tempo e riusciamo anche ad ignorare il tizio al basso che canta Bob Marley (ma perché??), ma ormai è ora di affrontare l’acquazzone. Io poi ho la Canon da tenere all’asciutto. Avvolto la borsa nella cerata e camminiamo entrambi sotto la pioggia con le facce da scemi. Non ho mai capito come questo aiuti contro la pioggia.

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CANZONE DEL GIORNO: Redemption Song – Bob Marley